IL PANE SOTTO LA NEVE
XXII - NOTTE DI CEPPO

Natale, e qui parlate voi, miei ricordi!
Passa un giorno, passa un altro, ne veniva finalmente uno ch'era Natale... Ma prima del giorno veniva la notte, e dico in ordine d'importanza.
Due notti, da noi ragazzi, erano aspettate e vissute con gioia particolare fra il primo gennaio e il trentun dicembre d'ogni anno: la notte che precedeva le Ceneri e la notte di Natale. Erano certamente due notti molto diverse dallíaltre trecentosessantatrè, e diverse - si può dire opposte - erano pure fra loro. La prima, da un seguito dì giorni pieni di baldoria, baldoria rinforzata nell'ultimo e culminante nella cena, immetteva, al suono triste di una campana, in una quarantena tutta squallore di riti e di penitenze; l'altra invece, da una vigilia così rigida ch'era chiamata «vigilia nera» e meritava a chi la violasse i titoli infamanti di «corpo di lupo e anima di cane», ci trasferiva, tra lo scampanar più giocondo, a una festa, madre di una famiglia di feste, di cui si consolava tutto il più sconsolato inverno.
Nonostante il digiuno, la sera della vigilia di Ceppo non la cedeva punto, in allegria, all'ultima sera di carnevale. La fame, o almeno la voglia di mangiare, che lasciava nei nostri stomachi la magra cena consentita dalla santa legge cattolica, era per dir vero resa anche più pungente dalla vista delle vivande che si preparavano, in quelle lunghe ore di vigilia, per il desinare dell'indomani: vero supplizio di Tantalo, vedere ma non toccare, anzi, per maggiore struggimento, vedere e toccare (tutti avevamo parte alla fabbricazione dei cappelletti) ma non portare alla bocca. In compenso, l'insolitezza della faccenda aumentava le particolarità di quella notte tutta particolare, mentre il pensiero che e quel digiuno così stretto e quel desinare così lauto, tutto era in onor di domani, accresceva l'aspettazione per quel gran domani di Dio che si chiamava Natale. I giochi erano gli stessi dell'ultima sera di carnevale: giochi da ridere e giochi d'azzardo, dico d'azzardo per il nonno o per babbo, il quale, preso nella vassoia una certa quantità di cruschino, vi mescolava alcune monete da un centesimo o da due e quindi divideva la massa in tanti mucchietti, fra i quali ognuno di noi sceglieva a sorte il proprio, piccola miniera entro cui si dava a frugar con le dita, con la speranza e la febbre dei cercatori d'oro... Attraverso il focolare ardeva tra fiamme e schiocchi il rituale ceppo di cerro da cui pigliava uno dei nomi quella notte dal nome doppio. (E la Madonna, poveretta, fuori tra il freddo e la neve, fuori tra il buio con san Giuseppe in cerca di una casa dove nascer Gesù. Fosse venuta alla nostra, con quel bel fuoco, con tutte quelle belle cose da mangiar l'indomani!)
Tutt'a un tratto, mentre mamma raccontava dei Giudei senza cuore o del bove e dell'asinello gentili, suonavano le campane, e un grido di contentezza rispondeva da parte nostra alla voce loro che ci avvisava giubilando che la grande ora era vicina... Suonavano a doppio una seconda, una terza volta, poi, dopo una pausa più lunga, suonava da sola la maggiore, e non c'era più da indugiare a vestirsi perchè la prossima sarebbe stata l'entrata: per la via, già si sentiva passare qualcuno, e qualcuno, fermandosi all'uscio, diceva attraverso lo spiraglio: «Sì va?»
«Si va?» Così dicevano l'uno all'altro i pastori in quella notte degli angeli. Transeamus usque Betlehem et videamus hoc verbum quod factum est, quod Dominus ostendit nobis. Et venerunt festinantes... Con in mano, alta, una torcia fatta di paglia legata assieme, ci si metteva dunque in via per la chiesa, e tutti quei lumi, agitati per l'aria, lungo tutte le strade della parrocchia, portavano la mente a Betlemme, ai pastori, agli angeli.
Suonava l'entrata, e subito i cantori intonavano: «Cristo ci è nato».
Christus natus est nobis: venite, adoremus! Era l'invitatorio del mattutino di Ceppo, era il primo grido della gran festa, e per essere il primo non poteva esser che quello: «Cristo ci è nato!» ... Christus natus est nobis. Le voci incominciavano basse e salivano, salivano, salivano a scala per cinque note sulla prima sillaba di Christus, quasi traducendo, in quel crescer del canto, il crescere del desiderio, della sete, dello struggimento che avevan portato a quest'attimo da una lontananza di quattromila anni, ristretti, in figura, nelle quattro settimane dai paramenti violacei; desiderio, sete, struggimento espressi già nel mutarsi degl'invitatori: Regem venturum... Prope est... Hodie... Ripetuto nove volte il versetto, «Cristo ci è nato», il canto si rivolgeva a Lui, al gran nato, chiamandolo col suo proprio nome, «Gesù», col suo titolo di «universale redentore», e, dopo averne acclamata l'origine eterna,

Iesu, redemptor omnium,
Quem lucis ante originem,
Parem paternae gloriae
Pater supremus edidit,

gli ricordava pure, per indurlo a pietà di noi, la sua origine da Maria, nostra sorella, nella forma del nostro corpo:

Memento, rerum conditor,
Nostri quod olim corporis,
Sacrata ab alvo Virginia
Nascendo, formam sumpseris.

Diceva la vastità della gioia che la sua nascita aveva arrecato, gioia comune alle stelle, alla terra, all'oceano, a tutto ciò che il cielo ricinge:

Hunc astra, tellus, acquora,
Hunc ornne quod coelo subest
Salutis auctorem novae
Novo salutat cantico.

Ma la mezzanotte non era ancora arrivata, e i notturni occupavano l'intervallo, alternando in salmi, profezie, responsori, sensi di speranza e di allegrezza, parole di supplica e di gratitudine, voci di meraviglia e di lode, che si conchiudevano nellíinno amplissimo del Te Deum, cantato in piedi e a pieno grido da tutto il popolo mentre la chiesa s'andava tutta illuminando nell'attesa di quel momento.
«In te, Signore, ho sperato: non sarò confuso in eterno». Con questa suprema voce finiva il ventiquattro dicembre, finiva l'Avvento, finivano quaranta secoli di aspettazione fidente, e incominciava il Natale. Dominus dixit ad me: Filius meus es tu: «Il Signore m'ha detto: tu se' mio Figlio». È l'introito della messa di mezzanotte, è il Nato stesso che parla, che si presenta agli uomini, per i quali è venuto, dichiarando la sua origine, la sua paternità, i suoi titoli, quasi un messo che giunga a nome del suo sovrano in paese straniero... L'immagine del Figlio di Dio stava ancora velata in cima all'altare e tutti gli occhi erano intenti a quel velo, mentre i cantori, acclamandolo alternatamente Signore e Cristo, nove volte chiedevano all'Inviato divino la pietà per cui s'era mosso.
Terminato l'ultimo Kyrie, il sacerdote intonava Gloria in excelsis Deo, e tutte le campane e tutti i bronzi di chiesa si davano con impetuosa gioia a suonare: il velo cadeva e il frutto del ventre di Maria appariva, in figura, sorridente díamore, fra i due poli dell'amore, il ciborio e la croce. Qualche bambino, svegliato improvvisamente da quel fragore di campanelli, si metteva a piangere, e quel piccolo pianto mescolato con le acclamazioni del Gloria che si levavan dal coro faceva pensare ai primi vagiti del Dio neonato mentre gli angeli spargevano fra cielo e terra l'inenarrabile notizia... La notizia si allargava, s'irrobustiva man mano che la messa andava oltre. Ecco Paolo che lo scrive a Tito: «Carissimo, la grazia di Dio nostro salvatore è apparsa ormai a tutti gli uomini...» Ecco Luca che precisa le circostanze: «In quel tempo uscì un editto da Cesare Augusto che si facesse il censimento di tutta la terra... Salì anche Giuseppe dalla città di Nazareth della Galilea alla città di Davide nella Giudea che ha nome Betlemme... per esser messo a libro insieme a Maria sua sposa la quale era incinta. Accadde che mentr'eran lì essa finì il tempo: e partorì il suo primo figliolo...» E tutta ormai la messa è un echeggiamento del «gaudio grande» che l'angelo annunziò ai pastori: quia natus est vobis hodie Salvator, qui est Christus Dominus.
«Vi è nato un Salvatore»: e la notte, all'uscita, pareva meno buia, le stelle più lucenti, la neve stessa più bianca.
«Vi è nato un Salvatore»: e la casa, al ritorno, ci sapeva più dolce, il letto più caldo, i sogni...
«Vi è nato un Salvatore...»

Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2, pp. 129-137.


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