DICEBAMUS HERI
la "Tunica stracciata" alla sbarra

di Tito Casini


«L'ombra di Banco»

Così, passando dai paolini di Roma ai loro fratelli separati, i pasoliniani di Assisi, vorrei ringraziar la Rocca, che per la penna del suo Vincenzo d'Agostino (Allergia alle riforme?) mi ha onorato del suo più viscerale disprezzo... ma come si fa a parlare di onore, e quindi di gratitudine, di fronte a casi, come questo, che tradiscono un'allergia alla ragione forse irriformabile, meritevole, comunque, solo di compatimento? «Uno scrittore cattolico, Tito Casini, ha pubblicato un opuscoletto che possiamo meglio chiamare libello», nella prefazione del quale «si dichiara solennemente che l'autore è cristiano e cattolico». E davanti al vostro amletico dubbio se sia o non sia, chiede a voi stessi, lettori, se non sia o sia, formulando tuttavia la domanda in maniera che la risposta è: non è. «Ma come è concepibile che un cristiano ... ? Come è possibile che un cattolico...?» Causa del dubbio-certezza è l'aver osato, questo scrittore cattolico-non cattolico, scrivere «contro la riforma liturgica e in particolare contro il cardinale Lercaro che della riforma è il leader indiscusso», e indiscutibile ossia (il corsivo rafforzativo è del D'Agostino) il duce che ha sempre ragione.
C'è da perderla, in verità, la ragione (ma a certi sragionatori io sono ormai avvezzo), a tentar di trovarne un poco nel ragionare, nel modo di ragionare di questo ragionatore per dimostrare che io ho dimostrato di non averla allucinata: effetto di «alcune parole», come «papa Giovanni», che causano nel mio spirito «un incubo simile a quello che causava su Macbeth l'ombra di Banco» (e non posso negare che in questo un po' di ragione ce l'ha, nel senso che io rammento spesso papa Giovanni!) Era naturale che anche lui facesse intervenire nel suo discorso il Discorso: dico quello di Paolo VI, che definì tra l'altro «questione degna d'ogni attenzione» quella «della conservazione della lingua latina nella liturgia»; ma come si fa, come fa il D'Agostino, che ha pur citato la frase, a dire che io sono stato così poco cattolico da abbandonarmi a tali «eccessi» per amore del latino», quanto dire per una sciocchezza, una questioncella indegna d'ogni attenzione? E a dirmi che «per amore del latino» io chiudo «gli occhi davanti alla vera cattolicità che è universalità», se la mia tèsi e tutto il mio libro è una difesa del latino in quanto detto e ridetto dai papi «lingua cattolica», «lingua universale», e perciò «propria della Chiesa», cattolica idest universale? Ah, signori francesi, - signori della Rocca, vo' dire, come tirate male! Più scaltro di voi, altri ha cercato di sopprimerle, di farle scordare, quelle parole, ma voi dovreste conoscerle, avendo letto il mio libro, nel quale sono pur riportate... A meno che non siate, amleticamente, in buona-mala fede: buona, perchè ignorate, non avendoli mai letti, quegli Atti dei papi e del Concilio, credete davvero, per dirne uno, che papa Giovanni fosse per il volgare; mala, perchè non avendo letto, evidentemente, neanche il mio libro, costruito e ben piantato sopra quegli Atti, ne parlate come se lo conosceste, al punto di dirmi che «si può amare o non amare papa Giovanni, si può dire che è un genio santo o un ingenuo caduto in trappola», ma se si ama e si stima bisogna non discordare da lui... E voglio davvero credere ad allergia - allergia acuta al latino - per non credere a malanimo, in voi, nel definire quel mio «libello» un «siluro» lanciato contro la Chiesa.

Anche per la Rivista di pastorale liturgica (maggio 1967) il mio libro è, si capisce, un «libello»: è lo «sfogo » d'uno che «fu in passato forbito e vivace scrittore di libri ispirati alla liturgia, che seppe far amare e innamorare dei riti e dei tempi liturgici», e ora, chissà perché s'è trasformato in una specie di Voltaire, che con «rauca voce» (san ben io quello che la notte di Natale, secondo questa rivista «si sgolò» a rispondere in latino al Papa), «con un dente avvelenato», «servendosi di tutte le armi» (di tutti i denti, voleva due: con uno, oltre a tutto, si può far poco), si permette, «secondo l'esempio dei suoi "maggiori"», di «attaccare un cardinale». Amletico un tantino anche lui (e senza troppo riguardo per la grammatica), l'articolista sembra tuttavia darmi del pavido, dell'agnellino senza denti, scrivendo di sèguito: «Ma i "maggiori" fiorentini, di cui si gloria di seguirne l'esempio, avevano ben altro coraggio» (come difatti!) e non è chiaro, qui, se io dovevo essere o non essere come quelli, mettere o non mettere «un cardinale» là dove Dante, il maggiore del miei maggiori, mette per eresia «il Cardinale», che neanche per celia!
Nè meno amletico incerto, è quando aggmnge: «Il Casini ha sbagliato bersaglio, e volutamente», per dire, come subito spiega, che io ho tirato, sì, a «un carddnale», come volevo, ma ho colpito per sbaglio il Papa, «lo stesso Paolo VI», come m'ero prefisso. Che Sua Santità li perdoni... vedendo come tirano male!
E mi ricordo, a questo punto, dico dinanzi a questa maniera di... tirare, di uno scritto di Adolfo Oxilia, mio carissimo amico, intitolato, non amleticamente ma argutamente, Necessità dell'inutile latino. Me lo ricordo non perchè l'autore vi si riveli miglior tiratore, quanto ad azzeccare il futuro, e prova ne sono queste parole con cui ci vuol dimostrare che il latino non sarà mai «acqua passata». No, non sarà, egli dice, «se il latino è e resterà la lingua universale della Chiesa cattolica, cioè universale, se sarà la lingua del prossimo Concilio ecumenico (cioè ancora universale), parlata da migliaia di prelati, bianchi, neri, gialli e rossi. Ogni giorno si celebrano in ogni angolo più remoto del mondo migliaia di messe; e si celebrano e celebreranno sempre in latino: ché sarebbe ben stolta la Chiesa - e ovviamente non lo sarà - se rinunciasse a questo fortissimo cemento della sua unità...» «Ovviamente», tu dici, e ben tu dici, amico Oxilia; ma la realtà è quella che è, e giova sperare in un'altra profezia, laica e pagana, quella di Orazio: Multa renascentur quae iam cecidere... Resta però che il tuo libro dimostra inconfutabilmente una cosa: dimostra che il latino è utile e necessario perchè insegna a ragionare... oltre che a non scrivere, per esempio, «di cui si gloria di seguirne», il quale sarà di sicuro un lapsus chè, se non fosse, troppo presto se ne vedrebbe avverata un'altra, di profezie, e di un vescovo, questa, monsignor Romoli, di Pescia, che, con tutto questo dài-dài al cane in chiesa, il clero lo piglierà poi a calci anche in casa: «il clero, salvo eccezioni, non studierà più il latino» (e pace sia, lasciatemi aggiungere, a chi lo disse «gloria dei sacerdoti», vere sacerdotum gloria, che fu un grande papa!)
Dulcis in fundo, in ogni modo, e dico per me che un qualche merito me lo vedo infine assegnato, sul tipo del castigat ridendo mores, sia pure con un accostamento che non fa punto pensare a buoni costumi e perciò punto non mi lusinga: «Però, bisogna riconoscerlo, il Casini ha buon gioco quando con fine sarcasmo, vicino al sadismo, si diverte a cogliere i "fiorellini" della traduzione dei testi liturgici. Le altre pagine formano un assolo che merita più compassione che comprensione» (ma non è, la compassione, effetto di comprensione? Soccorri, Oxilia!) «queste, invece, ripropongono un problema ancora scottante e sono una lezione che sarà bene imparare». Grazie!


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