SUPER FLUMINA BABYLONIS
lettere dall'esilio


di Tito Casini




«Licet» e «Libet»

Papa Giovanni era un «poeta», voglio dire che intendeva e gustava la poesia, la bellezza, e si doleva che non tutti i preti (frati inclusi, e magari vescovi) avessero o coltivassero questo divino dono, almeno nella loro qualità di ministri di Colui a cui l'umana poesia, l'arte, «quasi è nipote». La sua vigile, intransigente difesa del latino in quanto patrimonio invidiabile e inalienabile della Chiesa «sive in sacris disciplinis tradendis sive in sacris habendis ritibus», deriva pur da questo suo amore del bello e n'è precipuo argomento. La Veterum sapientia - il solennissimo fra i suoi Atti, che i «giovannei» a non Ioanne non gli perdonano di avere scritto come a me di rammentarlo - trabocca del suo entusiasmo di «poeta» per questa lingua «non sine divino consilio in Latii finibus exorta». Essa è «l'aurea veste della sapienza»; è «la splendida veste della celeste dottrina e delle santissime leggi», cui ben s'addice quel suo stile «conciso, vario, armonioso, pieno di maestà e di dignità»; è quella «che tutti hanno accetta e amica»; è la lingua «piena di nobiltà e maestà»; è il «tesoro d'incomparabile prezzo»; è... tutto ciò che per queste, non meno che per le tante altre ragioni, lo porta a concludere come ognun sa: con l'ordine ai vescovi d'impugnar con energia il pastorale contro gl'«innovatori» che ardissero impugnar la penna contro il latino (cosa che i vescovi non fanno perchè dovrebbero impugnarlo contro se stessi).
Papa Giovanni non ha fatto, in questo - dico nel presentar la bellezza come una dei principali motivi che fanno del latino «la lingua propria della Chiesa» -, altro che ripetere, con un suo calore particolare, ciò che tutti i suoi antecessori avevan detto. Per rimanere nel nostro secolo e citar l'unico che io non abbia fin qui citato, ecco Benedetto XV (Vixdum Sacra Congregatio: 1921) che nel latino, il sermone «quo Ecclesia filios suos alloquitur», loda l'«orationis perspicuitas», l'«accuratus disserendi modus» oltre alla «fida dogmatum interpretatio» e ricorda ai vescovi, anche per questo, il monito dell'Apostolo: «Depositum custodi», ribadendolo con l'aggiunta: «Haec vigere semper et servari necesse est».

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I vescovi custodirono fedelmente il deposito, contro cui i «novatori» (nuova denominazione, nuova «pelle» dei «modernisti») già tramavano più o meno coperti: chi avesse detto, ancora quattro anni fa, che il latino non sarebbe più risonato sotto le volte delle nostre chiese che ai nostri vecchi sarebbe stato ordinato di scordare i nostri bambini proibito e impedito di apprendere il Pater e l'Ave parlati fin dalle pietre erette dalla devozione lungo le vie... sarebbe parso, prima ancora che un miscredente o un eretico, un ebbro o un pazzo meritevole di compassione. Il Concilio, nonostante tutti i conati dei sovvertitori, obbedì a chi lo aveva indetto «per affermare ancora una volta la continuità del Magistero Ecclesiastico, senza attenuazioni e travisamenti», e il latino, ch'egli, Giovanni XXIII, aveva così fortemente riaffermato «lingua cattolica» e «lingua propria della Chiesa», ne uscì più forte grazie ,a un nuovo OBBLIGO che i Padri aggiunsero all'OBBLIGO di conservarlo: quello d'insegnarlo ai fedeli che non lo sapessero: «Provideatur» si provveda a che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme in lingua latina tutte le parti della Messa loro spettanti». Provideatur, OBBLIGO, ripeto, e generosa mancia a chi saprà indicarmi una parrocchia dove questo si faccia, un prete, di quelli che non sanno dir tre parole senza rammentar due volte il Concilio, il quale insegni al SUOI popolani la Messa in latino.
Si sa fin troppo quel che poi avvenne: affidato, per l'esecuzione, a un «innnovatore» che tale si vantò poi d'essere (sotterrato papa Giovanni e avuto l'incarico) d'esser sempre stato e di aver conformemente operato introducendo nella sua giurisdizione il volgare quando già Pio XII ribadiva in nome della Chiesa «l'obbligo incondizionato per il sacerdote celebrante di usare la lingua latina», l'obbligo diventò proibizione, la proibizione diventò obbligo, e il latino, foglia per foglia, come si fa per il carciofo (la volgarità dell'azione vieta di pensare alla margherita), scomparve nelle fameliche fauci dei «progressisti», che il 24 di marzo, una famosa data fascista, celebrarono la loro definitiva vittoria ingoiando fra grandi eia e alalà di giubilo l'ultimo grumolo: il Canone.
I vescovi (salvo rare quanto gloriose eccezioni) tacquero, lasciaron fare o incitarono: Properate ad manducandum!
Contemporaneamente, e logicamente si tramutavano i riti: l'altare diventava «tavola», la Messa «cena», il prete - ministro del «popolo» - per poter voltar la faccia al «sovrano» voltava la schiena al Santissimo, e ai fedeli, nel cospetto di Dio s'inibiva l'atteggiamento del pubblicano, s'imponeva quello, «stans: in piedi», del fariseo. Esattamente - e scusandosi con loro per il ritardo - alla maniera dei protestanti.
Il mondo, credente e non credente, chi non giubilò per odio alla Chiesa, si stupì e si dolse, non fosse che in nome della poesia, della bellezza, che la Chiesa aveva fin lì riconosciuto come essenziale al culto di Dio. Si stupì, si dolse e inveì confrontando l'«oro», il latino, col «piombo», il volgare, con cui s'era barattato. Sia stato il diavolo, per riderne, a suggerire, o sia stata la loro naturale barbarie, certo è che i traduttori non potevano più barbaramente, più sconciamente tradire i testi, «antiquitate, pietate, pulchritudine, diuturno usu venerabiles», e la fiducia o piuttosto l'ansia di chi pur così definendoli ne aveva tanto raccomandato il rispetto. A un esame di scuola media quei nostri artieri della Riforma, le cui versioni dovevano (sempre secondo quel discorso, di Paolo VI) diventar «voce della Chiesa», avrebbero a stento buscato un quattro.
Sulla «bruttezza inammissibile» della Messa, e di tutta la liturgia in cosiddetto italiano, gli stessi antilatinisti (non dico tutti!) sembran d'accordo, tant'è vero che il giudizio è del padre Fabbretti, un antilatinista arrabbiato e integrale così da acclamare con entusiasmo, in quella sua Domenica del Corriere, la proposta di «sostituire con espressioni inglesi le formule nihil obstat e imprimatur», e questo mentre il massimo giornale inglese e anglicano, il Times, proponeva, con un annunzio in latino, l'adozione del latino come «idioma internazionale»; questo, mentre un teologo protestante, il ben noto Karl Barth, scriveva, in un suo libro dal titolo Ad limina Apostolorum, di aver «invidiato i teologi cattolici per la loro capacità di valersi del latino come della loro lingua materna!»
Così, con tanto di esclamativo, e l'esclamativo, lo stupore, ora, è non meno di loro, dei protestanti, che nostro, di noi cattolici derisi come «patiti del latino», a veder come la «bruttezza inammissibile» sia ammessa e piaccia in casa cattolica, nei confronti della «lingua materna», al punto di schernire la Madre per averla fin qui parlata e insegnata, di disobbedirla dove comanda espressamente di conservarla, servetur, e di posporla all'intrusa anche dove questa lasciava liberi di scegliere fra la laidezza sua propria e la bellezza dell'altra... Sono entrato in una chiesa (arrossisco la dirlo, della mia diocesi) durante una funzione mariana... e ne son dovuto fuggire sentendo il prete che cantava le litanie della Madonna, tradotte, leggendo su un pezzo di giornale invocazioni come queste: «Vergine degna di venerazione... Vergine degna d'ogni lode... Dimora dello Spirito Santo... Dimora tutta consacrata a Dio... Capolavoro di carità» e simili, a cui poche donne rispondevano tristemente con un «prega per noi» che aveva tutta l'aria di voler dire: «Madonnina santa, perdonaci: tu sai che non dipende da noi!» Non dipendeva infatti da loro: dipendeva da lui, il prete, il quale evidentemente trovava belle quelle litanie «in italiano» trovava che «Capolavoro di carità» era un capolavoro di poesia (e di chiarezza, s'intende, per quelle povere ignoranti), al confronto di «Rosa mystica», di cui sarebbe stato la traduzione.
E tristemente io pensavo, scendendo da quella chiesa di quel paese così toscano: - Eppure quello lì è un prete: è uno che ha studiato, che ha avuto una educazione umanistica, che ha letto un po' di Virgilio, di Catullo... e Dante e Petrarca e su su fino al Manzoni, al Leopardi, al Pascoli... E sa, quel prete, che non è in obbligo dl leggere e di cantar quella roba. Facendole pubblicare sul giornaletto diocesano il nostro arcivescovo intendeva tutt'al più suggerirle, quelle litanie bolognesi per compiacer l'amico di là e assecondar maestro Martino, al quale non si può dir di no. E nondimeno questo prete le dice, le canta, le preferisce alle lauretane, e, quel ch'è peggio, costringe a dirle e cantarle il popolo, dandogli a intendere che «Capolavoro di carità» è propriamente più bello e chiaro a dirsi e cantarsi di «Rosa mystica», l'abbia pur così detta Dante, si sia pur così detta Lei, e abbia pur, questo popolo, portato tante rose al suo altare.

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«Questo prete» è purtroppo «il prete»: il prete d'oggi, così invasato di Riforma,così fanatico del «volgare» da non trovarlo mai abbastanza volgare e oscuro, mai da non preferirsi al più sublime e chiaro latino. Come si spiega questo? Per non ricorrere al «picciol cornuto diavolo» più volte detto, un mio caro non meno che illustre amico domenicano che sta e lavora a San Domenico di Fiesole (vicino a padre Martino!) mi risponde che si tratta di un «virus»: un «virus» che ha preso il cervello di preti, frati e su su (io non dirò fin dove è arrivato), facendoli così delirare; ed è una diagnosi che corrisponde a quella fatta già da un altro, un primario quale Pio XII, in quello stesso discorso (Magis quam: 1951) in cui definiva il latino «gloria dei sacerdoti». Considerando l'eccezione - che oggi, per epidemia, è diventata la regola - ossia il caso del sacerdote che non sente, che non apprezza, oggi avrebbe potuto dir che disprezza, questa nobile, santa gloria, egli, il grande papa Pacelli, afferma che costui «deve ritenersi afflitto da una deplorevole miseria intellettuale: lamentabili mentis laborare squalore», e la conferma, starei proprio per dire d'ordine clinico, è che invece di affliggersi, oggi, del fatto, se ne va allegri, si ride.
Certo è che, in via naturale, si spiegherebbe il contrario: si spiegherebbe che i preti - i «giovannei», in particolare, stante la Veterum sapientia, e sono invece i più affetti dal «virus», i più giocondi tra i malati - resistessero, in nome della bellezza, al Consilium, anche se questo non avesse agito contro il Concilio, come ha fatto vietando ciò che in San Pietro s'era ordinato; resistessero ai vescovi, anche se questi non avessero agito contro se stessi annullando come prefetti all'esecuzione ciò che in parlamento avevano stabilito come legislatori: Linguae latinae usus in ritibus latinis servetur... contro cui sta l'«etiam» che lo caccia via «anche dal Canone», l'«ultimo baluardo della Messa in latino che viene a crollare».
Così ci si sarebbe aspettato, da parte dei nostri barattieri, che il vernacolo da sostituire ,alla «lingua cattolica» e diventar «vox Ecclesiae» fosse il meno possibile indegno di quella e di questa: che le traduzioni dal latino in italiano si facessero fare da «competenti», da persone che avessero un minimo di gusto (oltre a sapere un po' di grammatica, latina e italiana), supposto che le persone di gusto si prestassero a questo. Dante, per esempio, una persona non senza gusto (e che le due grammatiche le sapeva), avrebbe sicuramente respinto l'invito, rispondendo, col suo Trattato sull'eloquenza, che «nulla cosa per legame musaico si può dalla sua loquela trasmutare senza rompere tutta la sua dolcezza e armonia»; Dante, che aveva precorso, nel suo Convivio, papa Giovanni e il Concilio nel considerare «provvidenziale», per la sua «universalità», «perennità», «immutabilità», il latino, in quanto che «lo latino è perpetuo, non corruttibile, e lo vulgare è non stabile e corruttibile... Onde vedemo ne le cittadi d'Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua, molti vocabuli esser spenti e nati e variati onde se il picciol tempo così trasmuta, molto più trasmuta lo maggiore. Sì ch'io dico, che se coloro che partiron d'esta vita già san mill'anni tornassero alle loro cittadi, crederebbero la loro cittade esser occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante». E fortuna per i nostri trasmutatori, i nostri volgaristi liturgici, che l'autore della Commedia è partito d'esta vita già san quasi mill'anni: ci fosse stato oggi, la bolgia nona dell'ottavo cerchio avrebbe avuto sicuramente un cantuccio per loro! Dante, come già dicebamus heri, che aveva ingegno da darci creazioni o traduzioni, mi si concederà, un tantin migliori del «Capolavoro di carità» o «che avvocato inviterò?» o «mangi carne, bevi sangue», o «fu pure crocifisso» o «il tuo figlio che è Dio» e simil roba a carrettate, non ha osato nè creare nè tradurre: ha fatto risonare, lassù, ciò che aveva sentito nel suo bel San Giovanni o nelle basiliche in sul lito Adriano... dove monsignor Baldassarri farà ballar la messa volgare dei nomadelfi, e sua eccellenza mi scusi se discorrendo di gusto del clero d'oggi mi accade di ricordarlo: già dovevo con lui scusarmi (come ho già fatto intimamente con Dante) per averlo distrattamente chiamato «un dantista».

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Dicevo dunque che si sarebbe capito il contrario, o che, meno coraggiosi, nei riguardi del superiore, di don Abbondio, per il quale il superiore, a buon conto, «non adoprava nè schioppa, nè spada, nè bravi», i preti si valessero per lo meno del «licet», della facoltà di dire o non dire, fare o non fare, per dire o far secondo il meglio o il men peggio, in questo tempo di «desolazione del Tempio», d'illeciti licitati o promossi, di offese, sotto il nome di culto, all'onore di Dio, di cui le «messe danzanti», con chitarra elettrica e batteria, sono ormai esempi poco meno ch'edificanti: una delle lettere ultimamente ricevute mi riferiva di un parroco che, invitato con altri a pranzo da una famiglia di amici, «al termine del pranzo si ricordò che doveva ancora dir messa e celebrò consacrando il pane e il vino rimasti lì sulla tavola, lasciando esterrefatti e sgomenti commensali e ospiti».
Così, senz'essere obbligati dai superiori a violare l'articolo della Costituzione liturgica che permette, «possit», l'uso parziale, «congruus», del volgare, «linguae vernaculae», soltanto nelle messe cosiddette «comunitarie», «in Missis cum populo celebratis», ossia festive (e a Roma, dove vescovo è il Papa, si celebrano in latino, com'è noto e prescritto, anche molte di queste), i nostri preti si fanno un debet e un libet di vernacolizzar tutti i giorni, «cum populo» e «sine populo», sia pur col solo sagrestano e le panche, le quali, è vero, san contente, vogliam dire che non protestano, anche se, per il fatto d'esser di legno, si può credere che non capiscano o partecipino con molto maggior profitto di prima. E tira via se lo facessero i vecchi, intendo quelli di vista debole, ai quali lo zelo dei novatori ha cercato di render faticosa e penosa la lettura del latino facendo di questo il «verna» (lo schiavo) del vernacolo, nella strettezza dela colonna e la piccolezza dei caratteri tipografici che glielo affiancano, a sinistra, nelle pagine dei loro nuovi messali.
Così, facendoci dai paramenti, le loro «istruzioni» (senza dircene un perchè) che si tralasci il manipolo (Manipulus omitti potest), ma anche per questo s'è fatto come per il latino: via! nonostante il suo lieve peso e il suo alto valore simbolico. A un mio amico che lo chiedeva, prima d'indossare la stola il rettore della chiesa dov'era andato per celebrare lo rifiutò come cosa «antiliturgica» (forse per non dire che già lo aveva buttato ai cenci): al che egli rispose, muto, togliendosi il camice e l'amitto per andare a celebrare altrove.
Si capisce che chi ha concesso la dispensa tendeva a questo, al divieto, nè si fermerà a questo, e auguriamoci che di pezzo in pezzo, di «potest» in «potest», non si arrivi ai due pezzi... Dico per le donne, tenuto conto che anch'esse, ora, in qualità di «lettrici», e a dispetto di quel san Paolo («Mulieres in ecclesiis taceant»), potranno far parte dei ministri della messa. Quanto agli uomini, chissà che l'«ecumenismo» non ci porti, in certi luoghi e circostanze, anche a un pezzo solo: alla fiera di Uppsala, volevo dire al Consiglio Mondiale delle Chiese, s'è visto intanto i membri della cattolica, ancora in calzoni, trattare, dialogare con quelli delle altre in «cache-sexe» (non per il caldo delle discussioni teologiche ma perchè era la stagione dei bagni) e non io ma chi mi ha mandato la foto ci ha scritto sopra: «Nudi alla meta!» non so se per significar gli affari conclusi o l'inclinazione dei nostri a rinunziare anche alle brache.

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Così per il Canone... Quasi arrossendo di concedere ciò che lo stesso suo antecessore nel Consilium aveva, un tempo, dichiarato non potersi, «ovviamente», concedere, e forse sperando che della concessione nessuno si valga, il cardinale Benna Gut, «instante Excellentissimo Domino Carolo Rossi» (che ognun ricorda per le sue precedenti istanze contro il vernacolo), scrive, l'infausto 13 gennaio: «Linguam vernaculam adhibere LICET in Canone Missae». Licet, è lecito, e aggiunge che i nuovi testi devono avere accanto il testo latino: «textus latinus ipsis iuxtaponatur». Il padre Bugnini, dal canto suo, ossia dal suo trono, avverte che il licet, la concessione, vale per le messe «comunitarie», «dette col popolo», domenicali o sabatine che siano... e ce n'è assai perchè anche un don Abbondio, che del manzoniano abbia almeno il senso del gusto, lasci all'eccellentissimo Domino Carolo il suo brutto regalo. Ma, al contrario, il regalo è piaciuto ai preti (mi perdonino i pochi o i tanti che, è vero, lo han rifiutato), e non certo perchè sia piaciuto al «popolo»: al «popolo» che se può non avere il senso critico e l'acume teologico così da avvertirne dal lato estetico e dottrinale tutto lo squallore e la miseria, ha però il senso del sacro, ha il rispetto dell'arcano, e questo senso e questo rispetto gli han fatto chiedere, con pena, con delusione della sua fede, se era vero, se era possibile che il Mistero dei Misteri, il Miracolo dei Miracoli si compisse, che Dio scendesse dal cielo e trasformasse nella sua Carne quel pane, nel suo Sangue quel vino, al suono di quelle parole, «questo è il mio corpo, questo è il mio sangue», dette, recitate così, su un microfono, col tono e al ritmo di una lettura qualunque... Il paragone è profano, ma il giovane e la fanciulla che per dirsi le loro parole d'amore si appartano e se le sussurrano, a fior di labbra, anche se soli, san nello «spirito» del Canone ben più di questi populisti vernacolai che ne han fatto una chiacchierata senz'amore, senza baci (gli oscula ne sono stati tutti banditi): una banale logorrea comunitaria più da casa del popolo che da casa di Dio. Che tristezza!
E che tristezza veder questi stessi preti farsi un obbligo e un libet di ciò ch'è pur un licet e doveva esser rifiutato come un'irriverenza nei riguardi dell'Ostia, che, in chi non fu o non è indizio, può essere inizio di crollo o calo nella fede. «Dopo la consacrazione è permesso al celebrante non tener congiunti il pollice e l'indice...», al contrario della rubrica, e dell'amore, che fin qui lo esigeva; e se ne vedono che divaricano - per mostrar che non hanno scrupoli - pollice e indice come se giocassero e pari e caffo o avessero toccato... E ripenso alle nostre mamme che per rispetto di Quello c'insegnavano a trattar come cosa sacra il pane stesso della tavola, a raccoglier con devozione e baciare il frammento caduto... a non buttar per terra le briciole se... se non volevamo, quel giorno, esser costretti a ricercarle e trovarle tutte con un dito acceso per candela.
Quanto all'abluzion delle dita, sconsigliata come cosa «antigienica», posso dire d'aver visto un solo prete valersi del licet omittere - e che Dio lo ravveda! In Russia, con lo stesso argomento, «la dannosità per la salute di certi riti e usanze religiose», si combatte la religione. Lo scrive su un giornale di Roma un corrispondente di là (Diplomaticus), citando fra gli altri questo esempio: «L'Eucaristia viene attaccata perchè la Chiesa ortodossa la somministra sotto le due specie a mezzo di un unico cucchiaio che può sfiorare la bocca di molte persone. Quest'uso, come anche il bacio delle reliquie, iconi e croci, può, secondo i comunisti, provocare la diffusione di gravi malattie...» Estremi che si toccano? Diciamo piuttosto compagni che s'incontrano e si dànno la mano. Perchè, fra l'altro, «antigienica», Mussolini aveva proibito la stretta di mano; e non vedo come s'accordi con questa premura per la salute dei preti la «concelebrazione», nella quale i «concelebranti» bevono tutti, uno dopo l'altro, al medesimo calice... a meno che i bacilli non siano anch'essi riformisti, o il riformismo sia più forte e li ammazzi.
In questo spirito è la licenza, la facoltà di comunicarsi in piedi: «Communio dari potest fidelibus genuflexis vel stantibus», ed è un'altra licenza di cui i preti si son fatti legge e piacere, sebbene gl'innovatori non sian riusciti a inventare un pretesto per convincerci della convenienza di stare davanti a Dio ben piantati sulle gambe come chi è in pari con l'altro e può guardarlo negli occhi. Così, e calci nelle gambe a chi s'inginocchia, fino a che un di quelli, ricordando che l'altare è una «tavola» e la Messa una «cena», non troverà illogico anche lo stare in piedi, come al bar, e l'ordine, arrivati a quel punto, sarà: «Seduti!» ... fino a che un altro, ancora più progredito e più logico, dirà: «Macchè seduti! A que' tempi l'uso era di mangiare sdraiati», e l'ordine sarà... Si fa per dire, per ora, ma non ci sarebbe, o non ci sarà, da meravigliarsi o scandalizzarsi più di quel che non ci sia o dovrebbe a veder negata - come accade - la Comunione a chi, credendo e adorando, chiede di riceverla, cattolicamente, in ginocchio. Vivo ego: mihi flectetur omne genu, ed è triste che a incuorare la ribellione, a intonar col mondo Dio è morto, siano pur con questo esempio i cattolici, siano i preti, siano... Fermiamoci qui.

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Degne dei nuovi riti le nuove musiche che li accompagnano, e ci si chiede, anche qui, come si spieghi che uomini, come i sacerdoti, educati al bello o comunque dotati di un po' di gusto, se ne siano invaghiti al punto di non riconoscere, di non ammetter che quelle, ripetendole, miagolandole, sempre le stesse, di domenica in domenica, di messa in messa, fino alla nausea non meno di chi deve ascoltarle che di chi deve cantarle. Ci si chiede col Papa, deplorante che questa roba, le «cantilene oggi in voga», le «nuove espressioni musicali, povere d'ispirazione o prive di qualsiasi grandezza espressiva», soppiantino «l'antico preziosissimo patrimonio, la magnifica e venerabile tradizione ecclesiastica, così valida anche dal punto di vista culturale». Belle parole, precisamente di Paolo VI, le quali non hanno impedito - altra prova del conto in cui sono tenuti i richiami papali - che le suddette cantilene, parole e note, accompagnassero, aduggissero, a Bogotà, proprio la messa del Papa: in spagnolo, pur trattandosi di un congresso eucaristico internazionale e benchè il latino, co' suoi stupendi canti eucaristici tradizionali e universali, sia familiare come a noi ai nostri fratelli dell'America latina... Lo riferiva sul Messaggero il suo inviato Gino de Sanctis, notando anch'egli, oltre a tutto, la contraddittorietà di questo «comunitarismo», di questo pseudo-ecumenismo che divide ciò che l'autentico, ciò che il «cattolico», con la sua lingua «cattolica», univa: «Altra conseguenza del progressismo sbagliato notammo ieri al "Campo Eucaristico": l'impoverimento e la desolazione di una liturgia privata del latino e del canto gregoriano. Le cantilene spagnole di ieri durante il rito della Comunione mostravano una decadenza di forma che pareva la mortificazione della stessa sostanza. Là dove la Chiesa poteva conservare la sua unità, la sua universalità, là è stata minata dal falso progressismo instaurando una liturgia dei cento fiori che non riesce a convincerci. Ci reca conforto il canto latino "Veni, Creator". Allora le labbra dei negri, degli asiatici, degli europei non spagnoli, mute durante le canzoncine castigliane, si sono dischiuse nel canto unitario 'I.
Una voce dicentes... ed è per l'appunto ciò che il Papa ha riaffermato citando parole di san Clemente, nel suo discorso ai ceciliani (18 settembre 1968): «Il canto liturgico interessa la Chiesa nella sua totalità: "comunità di sentimenti" che si manifesta in "unica voce", e che dal canto viene a sua volta consolidata e rinvigorita». E son grato a Benny Lai, della Nazione, di aver detto che io ... non ho parlato diversamente in quei miei famosi libri che tanta polemica scatenarono nel mondo ecclesiastico riformista». Questa difesa, inattesa, mia concordanza col Papa è così importante per che non mi sento di rinunziarvi... e mi si scusi se paressi d'essermi dilungato dal tèma.

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A riportarmici è questo stesso discorso di Paolo VI, che non finisce d'insistere sulla necessità della «bellezza» nel Culto: insistenza che lo ricollega a Pio X, «pregare in bellezza», anche se del mite Pio X sembra non avere la forza per impedire che si preghi in bruttezza e ne geme egli stesso, come quando al cardinale Gut, il successore di Lercaro, dice dei suoi confratelli, invano esortati a restar fedeli al latino e al gregoriano: «I vostri benedettini sono dei disobbedienti!» E qui, a proposito di obbedienza (alla Chiesa, al Concilio, al Papa), cade di citar le seguenti «dichiarazioni» del medesimo cardinale Gut, nella sua qualità di «Prefetto della Congregazione dei Riti e Presidente del Consiglio per l'Applicazione della Costituzione sulla Liturgia», fatte «in presenza di due testimoni, Arcivescovi», e rese pubbliche attraverso un «comunicato» di cui si è raccomandata la massima diffusione, sottolineando «la posizione molto ferma» del Cardinale interrogato in proposito:
«I) La lingua latina rimane la lingua liturgica normale e la lingua vernacola non sarà utilizzata che in condizioni speciali. La Chiesa desidera che il Canone della Messa sia recitato ordinariamente in latino. Sua Eminenza ha deplorato che, in sèguito a un capovolgimento di cose che fa paura, la lingua vernacola sia diventata di fatto la lingua abituale, a detrimento del latino che dovrebbe conservare il suo posto preminente.
II) La Comunione in ginocchio è la maniera normale di ricevere il Corpo del Signore. A nessun sacerdote sia lecito arrogarsi la facoltà di rifiutare la santa Comunione al fedele che la chiede in ginocchio...» Parole al vento? Sì, al vento della Cei, che a un ordine così chiaro e autorevole di un organo ecclesiastico superiore ha risposto ordinando che anche quelle due parolette, Corpus Christi, siano prescrittivamente dette in volgare, in quel volgarissimo «Corpo di Cristo» appartenente al linguaggio dei barrocciai (e per tale proibito già dal Consilium), che qualche sacerdote si rifiuta infatti di dire o dice sottovoce vergognandosi o temendo forse di scandalizzare.
È, per tornare al discorso, il tradimento dei chierici, frati e preti, ed è il mondo stesso a soffrirne, «questo nostro mondo contemporaneo, tanto bisognoso di una testimonianza bella e intrepida, tesa alle realtà religiose, al sacro, a Dio»: parole del medesimo papa Paolo che mi fanno ricordar di un celebre libro, di un celebre scrittore nato esattamente due secoli fa, che tanto contribuì al rifiorire del senso religioso nel mondo dopo le gelate dell'ateismo illuminista e giacobino, quanto dire del «progressismo» del tempo. In che modo? Mostrando nel suo Génie du Christianisme, le «beautés de la religion chrétienne», dimostrando, cioè, che, «de toutes les religions qui ont jamais existé, la religion chrétienne est la plus poétique, la plus humaine... qu'il n'y a rien de plus divin que sa morale, rien de plus aimable, de plus pompeux, que ses dogmes, sa doctrine et son culte». Il capovolgimento oggi in atto è bene espresso da Giulio Confalonieri, che scriveva, tempo addietro, in Epoca: «Può darsi che per cantare ancora in latino occorra appartenere all'eresia o a quello che, sul principio del secolo, si usava chiamare "il libero pensiero"»; e adduceva: «L'altro giorno, qui al Conservatorio di Milano, abbiamo sentito la Sinfonia di Salmi dove le parole sono del più puro latino vulgatum. Autore, come sapete, il russo scismatico Igor Strawinski; esecutori un gruppo di coristi e strumentisti cecoslovacchi i quali, a rigor di termine, dovrebbero essere atei di Stato».

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È davvero nei disegni di Dio che gli atei di Stato ci rendano ciò che ci han tolto e ci tolgono gli atei di Chiesa? Me lo chiedevo già a proposito del latino rimesso come materia d'obbligo nel1e scuole di quei paesi transcortina, e me lo son chiesto nei tristi giorni passati, notando la pIetà, la preghiera, con cui quei poveri cecoslovacchi, corone e candele in mano, dietro la croce, portavano al cimitero un loro caduto per mano sovietica, mentre a Milano i preti suggerivano al sindaco di abolir tutto questo, mandando i morti, privatamente, alla fossa senz'accompagnamento, senza lumi nè preti nè preci nè prima nè dopo la chiesa, more bestiarum, ossia come carogne di cani. Il sindaco, ateo di Stato o almeno di partito (e ignaro che già così si faceva, per ordine della Curia a Torino), aveva per l'appunto esitato a sacrificare alle «esigenze del traffico» l'uso cristiano e civile e ha voluto in proposito il parere dei «clerici», i quali... non si sono smentiti: a protestare, a chiedere al sindaco il perchè di questo anticristiano e incivile «ostracismo ai morti», è stato, su Famiglia in questo cristiana un laico, e gli ha risposto beffandolo uno di quei preti, soddisfatto e poco meno che fiero di aver dato il parere.
Ben venga per questi preti, e vescovi e cardinali, un funerale come lor libet, senza prete, senza fidelium turmis, senza luci, senza De profundis, senza rosari per via (non essendo pensabile ch'essi vogliano valersi dell'«eccezione», antidemocratica, prevista per le «personalità»); ben venga, dico (quando Dio vorrà), e dico il funerale dico la parte, per dire il tutto, tutta la liturgia; ma quanto a noi, al «popolo», atei di Stato, o laici come me, come il milanese qui su citato, costoro sbaglian di grosso, e voglia Dio che lo riconoscano prima che il lavaggio in opera da più di tre anni dia loro tristemente ragione. (Subendo il metodo, i cecoslovacchi finiranno per dirlo ai russi: avete ragione - come dice per loro intanto la Pravda). Il popolo, scrive per l'appunto un vescovo, Renri Varin de la Brunelière, nella prefazione a un opuscolo dell'abate Maurice Lefèvre, Ne chantera-t-on plus en latin dans l'Église? (un titolo, dice in apertura l'autore, che, se non si vivesse nell'epoca in cui viviamo, «sarebbe assurdo»), «le peuple est sensible à la vraie beauté, beauté des édifices et beauté des chants; il est ému par les magnifiques mélodies grégoriennes que des candques vite fastidieux ne sauraient remplacer». E fra i «molti esempi di giudizi popolari» che la sua esperienza gli consentirebbe di addurre, egli cita questo: «Trovandomi a Parigi in un intervallo del Concilio, viaggiavo, un giorno, sulla macchina di un vecchio tassista e, spontaneamente, questi mi chiese se davvero si voleva abolire il latino in chiesa, si on allait supprimer le latin à l'église; per lui, aggiunse, nulla valeva i canti cristiani tradizionali, come quelli dei funerali, che lo avevano sempre commosso, qui l'avaient toujours ému».
Quanto all'utilità di questa bellezza, alla convenienza di «ne pas perdre et garder (comme la hiérarchie nous le demande) l'usage du latin», il tassista concordava col vescovo che «il vantaggio principale era quello di favorire l'unità dei cristiani» (come sostenevamo per l'appunto anche noi paragonando a un'inconsutile tunica fatta a brandelli l'unità della Chiesa stracciata dalla diversità delle lingue). «Per ammetterlo», scrive il vescovo, «basta conoscer la storia e fare appello al buon senso», ed è su questo ch'egli si appoggia per concludere: «Non ci perdiamo di coraggio: le mode passano, il disprezzo del passato e il cieco fanatismo del nuovo passeranno ugualmente: sane reazioni sono già in atto: l'obbedienza e il buon senso cominciano qua e là a riprendere i loro diritti».
io voglia presto, Eccellenza; ed è per questo che noi, dai fiumi di Babilonia, seguitiamo e seguiteremo a batterci. Per questo: perchè il tassista e il vescovo, «il figlio del duca e quello del vaccaio», possano ancora - insieme, una voce - pregare in bellezza Colui di cui il salmo canta: Pulchritudo in conspectu Eius, santimonia et magnificentia in sanctificatione Eius.

(Maggio e Settembre 1968)


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«Super Flumina Babylonis»

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