LA TUNICA STRACCIATA
«Lingua predestinata»

Non siate voi, archeologi del modernismo, fanatici delle «origini», a stupirvi di questo nostro risalir tanto in alto. Vi piaccia o no, la verità è che il latino mostra per tutti i segni la sua predestinazione a diventar la «lingua cattolica»: questo latino a cui Virgilio fa dir, profeticamente, già dalla Sibilla: «Ecco Dio!» («Ait: Deus! Ecce Deus!») e col quale e la quale annunzierà egli stesso il suo avvento («Iam nova progenies coelo demittitur alto»); questo latino che solo, a Gerusalemme, fra tanto clamor di accusa e di morte, lo disse e lo difese, per labbra romane anche femminili, innocente («Nihil tibi et iusto illi!» «Quid enim mali fecit iste?») e sul Calvario, per bocca d'un soldato di Roma, gridò, primo al mondo, la sua divinità: «Vere filius Dei erat iste!»
Conservatrice di quel Sangue, propagatrice, per sua missione, di quel grido, da portare «sino agli estremi della terra», la Chiesa fece sua quella lingua, facendone il segno e lo strumento di quell'«unità» ch'Egli aveva legato, con la sua più ardente preghiera, al suo sacrifizio. La fece sua e mantenne e difese con tanto più gelosa cura quanto più i suoi figli, moltiplicandosi e dilungandosi - universalizzandosi, dico, nello spazio e nel tempo - potevano, senza quel «vincolo», estraniarsi da lei e fra loro. La mantenne e difese - o piuttosto la fece amare, dotandola della più sublime poesia, delle più soavi armonie - soprattutto in ciò che per sua natura e definizione maggiormente lega, la preghiera, fedele al monito dell'Apostolo, cui non bastava che si onorasse Dio, dai cristiani, «con una sola anima», ma ben anche «con una sola bocca»: «ut unamimes, uno ore, honorificetis Deum»: a somiglianza, per cosi dire, delle schiere celesti, e quasi in coro con esse - lei, «immagine della città superna» - cui fa cantare a una sola voce, «una voce», nel suo stupendo prefazio trinitario e domenicale, la lode all'Eterno.
«Che idea sublime», dirà il De Maistre, il grande campione «laico» dell'unità della Chiesa, degno in questo di star con Dante, «quella di una lingua universale (il latino) per la Chiesa universale! Da polo a polo, il cattolico ch'entra in una chiesa del suo rito è in casa sua, in famiglia, e niente è forestiero ai suoi occhi. Giungendovi, egli ode ciò che udì tutto il tempo della sua vita e può mescolar la sua voce a quella dei suoi fratelli: li comprende, n'è compreso...» E lasciando la lirica per la filosofia e la storia egli aggiunge: «La fraternità risultante da una lingua comune è un vincolo misterioso di una forza immensa. Nel nono secolo, Giovanni VIII, pontefice troppo accondiscendente, aveva accordato agli Slavi la facoltà di celebrar nella loro lingua: il che può meravigliare chi ha letto la lettera novantacinque di questo papa, nella quale egli riconosce gl'inconvenienti di una tale dispensa. Gregorio VII revocò questo permesso, ma non fu più a tempo per i Russi, ed è noto quanto ciò sia costato a questo gran popolo»: vale a dir lo stacco da Roma e la caduta sotto la giurisdizione di «papi» che han potuto essere, in quanto capi dello Stato, capi al contempo della Chiesa e dei «Senza-Dio», un dei quali si chiamò Stalin.
La difesa che le minoranze alloglotte fanno del loro parlare, rispetto a quello statale, dice nell'ordine civile quale vincolo di fraternità, d'unità, di attaccamento alla madre-patria sia una lingua comune (ben lo vediamo noi italiani tra i nostri popoli di confine!) e così, nell'ordine religioso, è dei fedeli dei vari popoli nei riguardi della loro patria spirituale, dell'una e santa nostra madre Chiesa. Scisma ed eresia son sempre stati contro il latino, l'universale, per il volgare, il nazionale, salvo rimpiangerlo e invidiarlo davanti ai frutti ossia alla sterilità, vista in atto, dei tralci recisi dalla vite, in confronto di quelli che le restarono e restano uniti. Le lingue nazionali rappresentano, dove già il passaggio non è avvenuto, il primo passo verso le «chiese nazionali», ammesse e favorite e volute, con le lusinghe e le minacce, dai nemici - verdi o rossi - della Chiesa, ben consci che divisione e distruzione sarebbero per lei tutt'uno. È storia contemporanea, è storia odierna, che prosegue la recente e l'antica. Mindszenty non sarebbe, infatti, relegato, Beran non sarebbe qua in esilio, Wyszynski non sarebbe impedito, e tanti altri, loro e nostri fratelli, non sarebbero in prigione ma liberi e onorati e pagati se il loro cattolicismo non parlasse latino, quanto dir se la loro Chiesa non facesse capo a Roma ma a Budapest o a Praga o a Mosca o a Pechino. È altamente significativo, e dovrebbe farvi molto riflettere, che in Polonia - dove il Governo fa ciò che tutti sappiamo per nazionalizzare e così annientare la Chiesa - l'Episcopato, con a capo il suo cardinale, abbia respinto la vostra riforma, limitando la traduzione in lingua nazionale alla sola Epistola e al Vangelo.



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