LA TUNICA STRACCIATA
Il servo di Dio Giovanni XXIII

Caro santo papa Giovanni, come male ti hanno trattato e trattano in terra, per tanto bene che meritavi! Mal trattato glorificandoti, e non parlo dei tuoi nemici - ossia i nemici della Chiesa - che di te, con perfida ipocrisia, con satanica malafede, si sono fatti una bandiera per attirar gl'ingenui e gli sciocchi. Quei «nemici della Chiesa», i comunisti, come tu li hai esattamente detti e bollati fin dal tuo primo atto di papa (l'enciclica Ad Petri Cathedram), che, «con ingannevoli promesse e false asserzioni» (ivi) si studiano di traviare il popolo; che «ovunque hanno in mano il potere tentano con ogni mezzo di distruggere nell'animo dei cittadini il bene supremo della coscienza, cioè la fede, la speranza cristiana, gl'insegnamenti del Vangelo» (ivi); quei comunisti, scrivevi, «già condannati dai nostri precedessori, in particolare da Pio XI e Pio XII, e che Noi ugualmente condanniamo» (ivi), denunziando «la persecuzione che da decenni incrudelisce in molti paesi anche di antica civiltà cristiana» con una «raffinata barbarie» cui fa contrasto «la dignitosa superiorità dei perseguitati» (Mater et Magistra); quei comunisti «costruttori di illusorie torri di Babele» che «finiranno sicuramente come la prima», nei riguardi dei quali «la illusione per molti è grande e la rovina è minacciosa», senza scusa perchè «ciò che da anni si compie oltre la cortina di ferro è troppo noto» (Radiomessaggio 23 dicembre 1958) e «dialoganti» e «aperturisti» sono ammoniti di guardarsi e guardare i «lavoratori cattolici» dal «doloroso equivoco.... che per fare la giustizia sociale, per soccorrere i miseri, bisogna associarsi... coi negatori di Dio e gli oppressori delle libertà umane»: equivoco così doloroso per te, che tu ne soffri fino alle lacrime: «Il Nostro cuore piange, quando considera che tanti nostri figli, pur retti e onesti, hanno potuto lasciarsi sollecitare da tali teorie» (Discorso ai lavoratori cristiani, l' maggio 1960), e tutto questo e tant'altro senza una sola smentita in atti o in parole... Non di questi, io parlo, non dei figli delle tenebre la cui diabolica scaltrezza può pur valersi della bontà, della carità di un santo verso gli erranti, spacciandola per acquiescenza verso l'errore. Parlo di altri, tuoi «amici», la cui devozione è sincera e conclamatissima, ma i cui incensi si mescolano, le cui voci spesso fari coro con le voci di questi, non con tua maggior gioia o gloria, o diciam minor dolore e ludibrio, di quello che si sia fatto raffigurandoti, in quella tal chiesa, in compagnia di quei tali... E chiudiamo la digressione per ritornar sulla strada, chiedendo a Giovanni XXIII ciò che abbiam chiesto a tutti e in particolare al veneratissimo dei suoi predecessori, Pio XII: chiedendo, che anche qui vuol dir ricordando, tanto è nota e solenne, solennissimamente data, la sua risposta.

È la Veterum Sapientia, è la Costituzione Apostolica dedicata al latino: un atto cosi importante per il suo Autore, che per sottoscriverlo e promulgarlo volle, nel suo massimo fasto, la basilica di San Pietro, la festa della Cattedra di San Pietro, 22 febbraio del 1962, a pochi mesi dall'apertura e in vista già del Concilio, indetto «ad Christiani populi unitatem assequendam confirmandamque».
L'onore dice l'amore del Papa per l'oggetto del documento, il quale rappresenta difatti la più amorosa, la più calda apologia del latino, «lingua propria della Chiesa, con la Chiesa perpetuamente congiunta».
Riassumendo e facendo suo quanto di più laudativo si era detto nei secoli dai suoi predecessori e in particolare dagli ultimi, Pio XI e Pio XII, egli la vede, questa lingua, questo «loquendi genus pressum, locuples, numerosum, maiestatis plenum et dignitatis», nei suoi albori, «quasi quaedam praenuntia aurora Evangelicae Veritatis», non senza voler divino, «non sine divino consilio», fatta sua dalla Chiesa, la quale «ut quae et nationes omnes complexu suo contineat, et usque ad consummationem saeculorum sit permansura, sermonem sua natura requirit universalem, immutabilem, non vulgarem»: lingua, dunque, «quam dicere catholicam vere possumus», «perpetuo usu consecrata», «thesaurus incomparandae praestantiae», «vincolum denique peridoneum, quo praesens Ecclesiae aetas cum superioribus cumque futuris mirifice continetur», lingua imparziale fatta per rinsaldare le parti, «cum invidiam non commoveat, singulis gentibus se aequalem praestet, nullius partibus foveat, omnibus postremo sit grata et amica...» E non potendo tutto trascrivere, come se ne avrebbe la voglia e ne varrebbe il piacere, questo «preclarissimo documento», questa «pietra angolare» (come detto nel Monitor Ecclesiasticus) della dottrina della Chiesa circa il latino, passiamo alla conclusione, al pratico, che non difetta di chiarezza:

«Quibus perspectis atque cogitate perpensis rebus, le quali cose maturamente considerate e pesate, nella piena coscienza della Nostra carica e con la Nostra autorità, certa Nostri muneris conscientia et auctoritate, decidiamo e ordiniamo, statuimus atque praecipimus: I Vescovi e i Superiori maggiori degli Ordini religiosi... veglino, con paterna sollecitudine, paterna sollicitudine caveant, a che, nella loro giurisdizione, nessun " innovatore", ne qui e sua dicione, novarum rerum studiosi, ARDISCA SCRIVERE CONTRO L'USO DEL LATINO sia nell'insegnamento delle sacre discipline, SIA NEI SACRI RITI, contra linguam Latinam sive in altioribus sacris disciplinis tradendis sive in sacris habendis ritibus usurpandam scribant, nè s'attentino, nella loro infatuazione, di minimizzare in questo la volontà della Sede Apostolica, o d'interpretarla a lor modo: neve praeiudicata opinione Apostolicae Sedis voluntatem hac in re extenuent vel perperam interpretentur».

Eh? Come la mettiamo, Eminenza? Per vostra ammissione, e vanto, voi siete, in hac re, un «innovatore» e che «innovatore»! Contro il latino (che v'incombeva difendere!) voi avete impugnato non la penna ma il bastone e: - Fuori di chiesa! - Come la mettiamo, dunque, Eminenza? Perché, qui, una delle due: o il Papa (papa Giovanni!) sbaglia, con Pio XII, Pio XI e tutti i predecessori, e non gli si deve dar retta, non si deve quindi santificare, si deve anzi sconfessare, anche lui (e voi sarete, con convinzione, l'«avvocato del diavolo», contro di lui), come difensor del «diaframma», come sostenitor delle «caste»: lui più degli altri, semmai, lui che proibisce fin di discuterne, di trattare, d'impostare, di ammettere il problema (e ricordiamo la dura faccia con cui diceva a certi superiori d'Ordine da lui in udienza di cacciar dal convento quelli dei loro che avessero nella testa quel baco), o sbagliate voi, e noi ci regoleremo come va fatto.

Non ci risponderete, speriamo, col relativismo, ossia che un atto pontificio e di un tal pontefice, meditato e solenne come la Veterum Sapientia, possa valere e viger meno di una canzon di Sanremo: che i padri conciliari, sepolto fra tante lacrime l'indittore del Concilio, il pio papa Giovanni, sian risaliti dalla cripta per mandargli dietro, a occhi asciutti, ciò che, ancora umido d'inchiostro, aveva lasciato alla Chiesa «ad perpetuam rei memoriam», con questa intimazione finale: «Vogliamo, infine, e ordiniamo, in virtù della Nostra autorità Apostolica, che quanto abbiamo statuito, decretato, promulgato e comandato con la presente Nostra Costituzione sia e rimanga ratificato e confermato, contro qualsiasi disposizione in contrario per autorevole che possa sembrare: ... contrariis quibuslibet non obstantibus, etiam peculiari mentione dignis».
L'ipotesi va respinta, come assurda in se stessa e ingiuriosa per il Concilio.



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