NEL FUMO DI SATANA
VERSO L'ULTIMO SCONTRO
Inversione delle parti

Come ha potuto? È una domanda che ci si può e ci si deve rivolgere nei riguardi di tanti, di troppi, perché non la rivolgiamo a chi doveva impedire ch'essa potesse aver luogo, impedir che a tanto si arrivasse: che la «rivelazione marxista incarnata in Mao» avesse fra chi si qualificava cristiano i suoi missionari, potesse esser predicata fra noi, in Italia, in Roma, facendo del massiccio figlio di Budda il verbo incarnato, della falce-e-martello il simbolo della redenzione. Come han potuto? Di chi la responsabilità principale? Temo che chi ha escluso da quel brindello di offertorio lasciato nella messa riformata la menzione delle «negligenze» commesse nei riguardi dei propri doveri ministeriali, abbia motivo di meditar su questa domanda. Parlo di coloro qui praesunt, ed è l'autore stesso della domanda a rispondere, osservando come a tradire siano stati «"cattolici" che la gerarchia benignamente aveva qualificato di fiducia».
La gerarchia è, si, la grande imputata, la responsabile prima dell'aberrazione, della rovina per cui un suo membro fra i più autorevoli, il vescovo De Castro Mayer, ha potuto affermare, all'unisono con tanti altri dell'episcopato, del clero, del laicato cattolico e pur non cattolico: «La Chiesa sta vivendo la peggiore delle sue crisi, Paolo VI non esita a chiamarla "autodemolizione ", cioè una distruzione provocata dall'interno, dagli stessi membri della Chiesa». Separando, in questa sua responsabilità, ciò ch'è dovuto a connivenza e tenendosi alla negligenza, vale per essa, per i nostri capi e custodi spirituali, la definizione d'Isaia per i capi, per la gerarchia d'Israele: «Canes muti, non valentes latrare: cani muti, inetti a latrare, pastori che sonnecchiano, amanti del loro dolce dormire», salvo svegliarsi, aggiungiamo, e levarsi e inveire contro chi tenti giusto di scuoterli, sia pur con l'amore e nell'ansia per cui i discepoli del beato Martino lo supplicavano, morente, di non lasciarli: «Cur nos, pater, deseris? Invadent enim gregem tutum lupi rapaces». La benignità, il favore e i favori di cui nel gregge cattolico godono per parte dei vescovi gli ausiliari interni dei lupi e i lupi stessi senza neppure troppo bisogno di travestirsi da agnelli, son noti quanto l'accigliatezza e il rigore dei medesimi presuli contro i non «aggiornati», i non abbastanza «aperti» in fatto di «pastorale»: i «conservator», com'essi li definiscono non si pensando di onorarli, anche, o specialmente, se osservatori di quel «servetur» già da essi stessi intimato, in San Pietro, con la legislazione liturgica.

In questa situazione, ciò che maggiormente stupisce, per tornare a dire del referendum, è lo stupore della gerarchia per il suo esito: lo stupore di chi ha permesso le cause e ne lamenta gli effetti, di chi ha lasciato libero campo ai seminatori di vento e si domanda perché piova. Vous l'avez voulu, George Dandin... È ciò che, fatta salva la reverenza, vien da rispondere al cardinale Poletti, che manifesta così, per ciò che riguarda il suo campo, la propria meraviglia: «Ci si aspettava che piovesse, non che diluviasse», ed è impressionante, per chi sa ancora impressionarsi, che questa grossa tempesta, questo diluvio di «no» (il settanta per cento), si sia verificato a Roma, il centro e la sede della Chiesa, la diocesi di cui è vescovo il Papa.

Lo si è accusato, lui, Paolo VI, il «Pontefice oggi infelicemente ossia tormentosamente regnante», di non aver fatto quanto era in lui perché il diluvio non avvenisse, di averlo, col suo «amletismo», con la sua «condotta ambigua e imbarazzata», piuttosto favorito che ostacolato, adducendo fra l'altro il «lungo silenzio che ha permesso ai vari Gorresio» (uno dei più spudorati fra i mentitori di questa spudorata campagna di menzogne d'ogni maniera e misura) «di far credere alla gente che fosse proprio lui il capo occulto dei divorzisti», come ha scritto sul Tempo Enrico Mattei e su altri giornali altri giornalisti, mentre sul Giornale d'Italia Ugo Spirito - acattolico come Mattei o anticattolico come Gorresio, pur se di non cosìbassa lega - basandosi sugli stessi e simili fatti, domanda e conclude: «Come si spiega tale atteggiamento? È inutile fare supposizioni arbitrarie e non fondate su dati di fatto sicuri. Ma l'ipotesi che il pontefice fosse per il no è tutt'altro che da escludere».
L'«ipotesi», assurda e offensiva come non occorre dimostrare, sembra invece certezza, e gliene fa un titolo di merito, un motivo di gloria, a un di que' preti, il più famoso fra i «millecinquecento» contati da Alcide Cotturone in campo divorzista, superfluo dir l'Ernesto Balducci.
Felice per la sconfitta del «sì», Balducci («il prete che ha detto di no», come definito, per la storia, in televisione), felice e gongolante, al punto di far di Fortuna l'uomo della Provvidenza dicendo che il 12 maggio ha segnato, grazie a lui, «una svolta provvidenziale per l'Italia che sotto molti aspetti rimaneva un paese arretrato» (e chissà che salti di gioia, che amplessi di gratitudine, quando per opera sua, e del Pannella, l'Italia avanzerà ancora legalizzando l'aborto!») ha interpretato il «silenzio del Papa» come un indubbio placet alla legge, d'iniziativa marx-massonica, che «ha liberato la Chiesa da un miraggio di conservazione, di attaccamento a modelli tradizionali», e lo ha difeso, si lo ha difeso, scagionato, per questo suo assenziente silenzio, per questa sua non belligeranza, difeso e scagionato, il povero Papa, scaricando sui vescovi (non tutti al modo di un Pellegrino) la colpa, la responsabilità della guerra che avrebbe voluto l'Italia arretrata sulle posizioni del vecchio tradizionale Vangelo dell'homo non separet. Il Papa, infatti, Paolo VI, egli ha dichiarato al degno compare televisivo frate Ugolino Vagnuzzi, «non poteva far propria questa battaglia, aperta dai vescovi italiani, perché egli è responsabile della comunione di tutte le chiese a livello mondiale», e il «purtroppo», lo «stupore e dolore» con cui il Papa stesso, saputo l'esito, il trionfo del «no», lo ha commentato, così come il suo rimbrotto per la «mancata doverosa solidarietà di non pochi membri della comunità ecclesiale», non son che parole: parole ch'egli doveva dire, che come Papa (di una Chiesa cosìancora arretrata) era costretto a dire, ma ch'egli era indubbiamente per il divorzio.
Povero Papa! il Carducci ci torna a mente, davanti a una così atroce offesa: il Carducci, cui questo frate, in fatto di disprezzo per la Chiesa e il suo Capo, avrebbe potuto far scuola e fornire spunti di attacco da rinforzarne l'Inno a Satana, salvo insegnargli che Satana non è più soggetto da inni sibbene da favole: la lezione ch'egli, il Balducci, impartiva per l'appunto l'altr'ieri al Papa, rimproverandogli, nei riguardi di Satana, un discorso «che avrebbe poi potuto fornire materia di irrisione a molti, di scandalo a pochi e, comunque, a tutti alimento per una nuova superstizione».
Il Papa, infatti, con quel discorso (15 novembre 1972), dimostrava di credere e intendeva far credere in lui, nell'esistenza di lui, Satana, quasiché la «nuova teologia» non lo avesse già riposto, insieme agli angeli, fra i «miti», i personaggi da novelle, come l'orco e le fate, creati dai poeti a salutare sgomento e godimento dei bambini.

Il Papa, è vero - e non potrebbe non esser vero, se vero è ch'egli è il Papa - crede in Satana, così come crede in Dio. Satana esiste, egli ha detto, dedicandogli lo spazio di un'intera udienza in San Pietro, dove già ne aveva denunziato il «fumo», fattosi via via più denso e accecante. Esiste, ha ripetuto con forza: «Sappiamo che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero e che con proditoria astuzia agisce ancora; è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana... È l'omicida fin da principio... e padre della menzogna, come lo definisce Cristo; è l'insidiatore sofistico dell'equilibrio morale dell'uomo. È lui il perfido ed astuto incantatore che in noi sa insinuarsi, per la via dei sensi, della fantasia, della concupiscenza, della logica utopistica o di disordinati contatti sociali nel gioco del nostro operare, per introdurvi deviazioni, altrettanto nocive quanto all'apparenza conformi alle nostre strutture fisiche e psichiche, e alle nostre istintive, profonde aspirazioni...» Satana, il Maligno, esiste: «non è soltanto una deficienza ma una efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà, misteriosa e paurosa», dimostrata dal Vangelo, che è, si può dire, popolato dalla presenza del demonio», dimostrata dalla Scrittura e confermata dalla Chiesa, per cui «esce dal quadro dell'insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente». Il Balducci è di questi: il Balducci che contesta e insegna a contestare il Papa, affermando con serietà, dopo averlo deriso come superstizioso, ch'egli «ha espresso una sua opinione personale e le sue parole hanno valore pastorale e non dottrinale: condividerle non è vincolante per i credenti...»
Povero Papa! a prenderne, qui, le parti, contro tali «credenti», sembrano essere gli eredi intellettuali del poeta che invitava, con più rispetto, Pio IX a brindar con lui alla libertà: è, per dirne uno, Indro Montanelli, che scrive: «Quando il Papa parla del diavolo non solo non abbiamo nulla da obbiettare, ma lo ascoltiamo in umiltà e compunzione, perché del diavolo il Papa è il solo che può direi qualcosa», e rispondendo a un negatore tipo Balducci (senza la sua tonaca, beninteso, ossia la tonaca ch'egli portò da sacerdote e da religioso): «Lei al diavolo non ci crede? E sia. Però, dia retta a me, non ne sorrida perché sorridere del diavolo è il modo migliore per somigliargli».
Povero Papa, ed è l'Osservatore Romano a riferirne la difesa, fatta così su un giornale e da un giornalista dell'altra sponda, che alludendo a quello e ai troppi Balducci in corpo alla Chiesa conclude: «Comincio quasi a credere che di questa Chiesa siamo rimasti solo noi laici a nutrire rispetto»: ciò che ha suggerito all'anonimo autore del rilievo vaticano (forse il Papa stesso, figlio del giornalista Giorgio Montini) la domanda-titolo del suo articolo: «Inversione delle parti?»


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