NEL FUMO DI SATANA
VERSO L'ULTIMO SCONTRO
Vergognosa eccezione

Questo dolore e mestizia, non sentiti dai nostri, sono sentiti, onore a loro! dai Vescovi tedeschi. Onore a loro e gratitudine anche per noi - noi italiani che per ogni ragione, noi i più vicini, avendone fra noi la sede, al cuor della Chiesa, noi per i quali la «sua lingua», sposa da sempre del «suo canto», è «la lingua nostra» - avremmo dovuto essere i primi, in questo, e non lo siamo neanche ora: ora a un anno dacché il giornale della Santa Sede dava con risalto quella notizia: «Rivolgendosi recentemente al Santo Padre con una lettera firmata da tutti i Vescovi, la Conferenza Episcopale della Germania ha auspicato che la lingua latina sia conservata nella Liturgia».
Unanimi e certi, come già sanno, che quanto chiedono sarà accolto «magna cum satisfactione» da tutti i loro sacerdoti, essi, i Presuli tedeschi, solennemente, episcopalmente, dichiarano: «Arbitramur nempe linguam latinam, illam linguam vetustam in Ecclesia catholica, quae per saecula fuit vinculum quoddam praestans unitatis cum Sede Romana, retinendam esse in usu liturgico», e il Papa non ha potuto non consolarsi che nel paese di Lutero si voglia, si faccia questo, come non in Italia, il paese cattolico e latino di cui egli è il Primate.

Non in Italia, no, non i nostri Presuli, e non sarò io - quell'io...! - a sottolineare questa non onorifica assenza: sarà un amico e collaboratore dei nostri, sarà il Pieraccioni, che recependo, magna cum satisfactione, la notizia e rilevando come «il ritorno del buon senso», col ritorno del latino, sia in atto «non solo nei paesi dell'area romanza come la Francia, ma anche in paesi di lingue anglosassoni come appunto la Germania, o di lingue slave come la Polonia o la Cecoslovacchia» (i due da me plurimentovati compagni italo-maoisti l'han ritrovato, con loro orrore, perfino in Cina), lamenta e commenta: «Unica eccezione è per ora l'Italia: nella recentissima edizione italiana del rito delle esequie sono scomparsi testo e musica gregoriana di canti responsori antifone che erano da tutti cantati da tempi immemorabili... In paradisum deducant te angeli... Chorus angelorum te suscipiat... Ego sum resurrectio et vita... mirabili antifone, testi incomparabili, o diciamo meglio intraducibili, tanto bene significano da sé quello che intendono dire: le esequie senza canto... sono come una Pasqua senza alleluia». Il che è vero, ma è pur vero, sia detto a loro discolpa, che per godere di un canto bisogna avere il dono dell'udito, come per godere di un prato in fiore o di una notte stellata occorre quello della vista: il dono del gusto, in una parola, che i nostri riformisti non hanno e, deridendoli come «estetisti», compiangon altri di avere.

Onore dunque, e gratitudine, anche per noi, a questi Vescovi della Germania che han dimostrato di averlo, il dono, come già avevano dimostrato di possedere il senso della dignità rifiutando un'onorificenza considerata inaccettabile, per le mani che gliela offrivano, dal loro onore... «Il vescovo di Ratisbona, monsignor Rudolf Graber», come apprendiamo infatti dall'Asca, «ha rifiutato la Gran Croce al merito, la massima onorificenza civile della Bundesrepublik, assegnatagli dal presidente Gustav Heinemann, dopo che questi aveva firmato la legge sull'aborto», mentre, per lo stesso motivo, altri, già parimente decorati, rimandavano al Presidente le insegne; e vogliamo qui aggiungere cio che il vescovo rispondeva a un italiano che si rallegrava per il suo «gesto»: «Credo sia tempo che tutti, sacerdoti e laici, in tutti i paesi, debbano formare un fronte comune contro l'indebolimento morale e contro ogni modernismo». Il «gesto», infatti, è giovato, se si deve - come non vi è dubbio - anche a quello il «voto in favore della vita», come i cattolici, suoi propugnatori, han definito la sentenza del Tribunale Federale Tedesco, che ha annullato come incostituzionale la Fristenloesung, la libertà di abortire, votata dal parlamento. E anche questo sia detto mentre da noi il «cattolico» Moro, l'insostituibile capo di governo di un partito «cattolico», rinunciatario già sul divorzio, si prepara a rinunziare, a far zona B del diritto di chi vive alla vita, dichiarando, con riferimento all'aborto: «Vi sono cose che la moderna coscienza pubblica attribuisce alla sfera privata e rifiuta siano regolate dalla legislazione ed oggetto dell'intervento dello Stato», per cui, al momento di decidere, «prevarranno la duttilità e la tolleranza», vale a dire, con tragica incosciente ironia, la conservazione della poltrona governativa in cambio della libertà di ammazzare, largita da chi professa di credere nei Comandamenti divini, senza scrupolo, senza terrore del grido, Vindica, Domine, sanguinem nostrum, che si leverà, che già si leva contro essi, già intenzionalmente omicidi, già, proditoriamente, assassini... Auguriamo a Leone la forza di rifiutare una firma come quella per cui i Vescovi tedeschi rifiutarono le loro onorificenze: glielo auguriamo, per la sua pace, qualunque cosa accader dovesse, che non sarà mai come legalizzare il delitto, offrendo alla sua meditazione d'uomo civile e cristiano queste parole di un sacerdote francese, George De Nantes, per la sua patria: «La legittimazione dell'aborto proverebbe l'illegittimità del regime, laico e materialista... Pur che vivano gl'innocenti e viva la Francia, crolli pur la repubblica, in Nome di Dio!»
Dopo di che, con quei nostri Vescovi della Germania, torniamo al latino, torniamo al discorso da cui abbiamo solo apparentemente deviato, ricordando il «dono» che, nella persona dei Vescovi, il Papa fece, il giorno di Pasqua, l'anno scorso, a tutti i fedeli, il «dono personale» del libro Iubilate Deo, fatto appositamente stampare e contenente un «repertorio di canti gregoriani in lingua latina» (ventiquattro, fra cui tutta la Messa) al fine che si ripristinassero come «minimo» in tutta la Chiesa, in applicazione, anche, del disposto conciliare che ordina di «provvedere a che i fedeli possano insieme dire e cantare in latino tutte le parti della Messa loro spettanti»: quel latino che, col gregoriano, «per tanti secoli ha accompagnato le celebrazioni sacre nel rito romano, ha nutrito la fede e alimentato la pietà, ha raggiunto una perfezione artistica tale da essere meritamente considerato dalla Chiesa come un patrimonio di inestimabile valore, ed è stato riconosciuto dal Concilio come "proprio della liturgia romana". Il dono è accompagnato da una lettera del Prefetto della Congregazione del Culto che raccomanda vivamente alle Loro Eccellenze l'iniziativa del Santo Padre... e che ci fa ricordare, per il conto che se n'è fatto e si fa, le gride del governatore di Milano contro i portatori del ciuffo... Absit iniuria, e voglio sperar, caro Pieraccioni, che l'Italia rappresenti anche in questo l'«unica eccezione»; ma dimmi tu, se sbagliassi, tu, l'amico dei Vescovi, quanti di loro, da noi, si son curati di obbedire comunicando ai loro preti il superiore volere: dimmi tu in quante chiese il «cero», spento dagli scaccini della Riforma, s'è riacceso, in ossequio al Papa, o se il dono non sia dovunque finito come presumibilmente lassù a Camaldoli per le mani di quell'Abate Generale, per il quale il latino e il gregoriano sono dei morti, più che quatriduani, che nessuno - neanche, per ipotesi, Nostro Signore - deve risuscitare.

Ci avevo sperato - ingenuo per troppo amore! - in questa risurrezione voluta dal Capo della Chiesa con quel suo Iubilate Deo, e il nuovo disinganno, il veder Lui, per questo, così deluso e deriso, Lui già beffeggiato in tanti altri modi, Lui passivo zimbello della variopinta ciurma che lo circonda, mi riporta a mente - fìgùrati un po', caro Pieraccioni - ciò che il nostro Papini, nella sua Storia di Cristo, racconta di Clodoveo... Gli leggevano, un giorno, la storia della Passione «e il feroce re sospirava e lagrimava, quando, ad un tratto, non potendo più reggere, mettendo la mano sull'impugnatura della spada, gridò: Oh fossi stato là io, coi miei Franchi!"»
A Paolo VI, se fossi io là - là al sommo della Chiesa, dove la passione di Cristo si rinnova e più obbrobriosa, in quella della sua Sposa - direi d'impugnar lui la «spada», come Gesù impugnò nel Tempio la frusta, e cacciar la banda che usurpandone in terra il loco, arrogandosene quasi le chiavi, parla e agisce in suo nome, in suo nome fa e disfà, riforma e deforma, nel furore di una rivoluzione che non rispetta neppur se stessa ma decapita e divora oggi - simile alla lupa dantesca che mai non empie la bramosa voglia e dopo il pasto ha più fame che pria - ciò che pur ieri, in odio al passato, intronizzò, innovò, pose sull'altare.

In suo nome, come afferma Jean Madiran denunziando (nella sua Réclamation au Saint-Père) i misfatti, in campo liturgico e dottrinale, perpetrati «da una burocrazia collegiale, dispotica ed empia, che pretende d'imporsi in nome del Vaticano Il e di Paolo VI». A torto o a ragione? egli si chiede, e per noi la risposta non può esser dubbia: a torto, A torto, come vuol provare, per il latino e il gregoriano, questo Iubilate Deo mandato ai Vescovi in dono pasquale perché splendesse inestinguibile nella Chiesa quel «cereus», perché non cessasse di risonar quella «psalmodia et hymnodia quibus horae, dies, anni tempora religionis sacrantur pietate» (e per cui un pagano, l'autore del Faust, invocava: «Oh, seguitate a risonare in coro, celesti melodie!») Che i Vescovi, come i nostri, non ne abbiano tenuto conto, che alle loro orecchie suonino più allettanti sirene quelle che il Papa, nella sua Sacrificium Laudis, chiamò già «le cantilene oggi alla moda» (stupefatto, per l'appunto, che il gregoriano si volesse «commutare» con quelle, «cum cantilenis hac aetate conditis»: e la moda, da allora, non ha fatto che progredire, in barbarie) è questione di disciplina o, come ripetiamo, di gusto, un dono, questo, un carisma non a tutti largito dallo Spirito Santo o mediatamente dal Papa: resta, però, che questa è la sua volontà, e la sua è, in questo, la volontà della Chiesa.
Certi, come siamo, di questo, noi non lasceremo il campo, noi continueremo da soli a batterci, come soldati a cui in battaglia sono venuti meno i capi ma risoluti ugualmente a non gettare le armi, a resistere fino alla vittoria o alla morte.
Rettorica? Lo dica pure chi non sa per prova che cosa sia la gioia di piangere ascoltando, parole e note, cose come la Sequenza di Pentecoste o il Prefazio dei Defunti... Quanto a me, leggo senza stupore (e non certo per simpatia politica!) ciò che i giornali han scritto della celebre Caterina Fursteva, ministro della Cultura sovietica, morta or è poco: che una sola volta nella sua vita è stata vista piangere in pubblico: quando ha sentito, a Mosca, il coro della Scala cantare il Va', pensiero.
Dalla Russia all'Affrica, dalla Scala a una capanna di negri: lontano, come si vede, da Roma, dalla sua lingua e dalla sua cultura: laggiù, intendo, dove il «volgare» e il «pluralismo», in chiesa, avrebbero apparentemente più ragion di valere.
È una testimonianza che non ci sentiamo di omettere: l'impressione di uno scrittore che avendo percorso da giornalista il mondo intero, d'impressioni, le più svariate, ne ha provate ben la sua parte. E Vittorio Rossi, uno scrittore cattolico cui un intervistatore ha rivolto fra le altre questa domanda: «Ha mai pianto di commozione nella sua vita?» Ed ecco la sua risposta: «Sì, ma solo una volta. E sa quando? Quando, capitato nel cuore dell'Africa equatoriale, in un villaggio brulicante di bambini nudi, li vidi intorno ad un altare, accanto a un missionario, che cantavano la Messa degli Angeli, in perfetto gregoriano e in passabile latino. Non sapevano quello che dicevano ma "sentivano" ed erano felici: era il più innocente e sconvolgente atto di fede che io abbia udito nella mia vita».
Non credo che una sola lacrima, in tutto il mondo, sia stata versata da un fedele assistendo a una messa riformata (salvo che di pena, di rimpianto, di nostalgia per il perduto, come quelle degli ebrei sui fiumi di Babilonia) e lo stesso Rossi ce ne addita la ragione proprio in quella razionalità (madre del razionalismo) nel cui nome si è irrazionalmente sfrattato dalla preghiera la poesia, si è sfrattato il mistero, senza cui essa non parla più al cuore né illumina che di fredda luce la mente. «Credo nella poesia», egli dice, «e proprio perché amo le cose chiare e genuine, ho bisogno di avere alle spalle una grande ombra, più fertile e feconda di tutte le chiarezze, fertile come la verità: il mistero. Se non sento il mistero intorno a me, nel cielo e sulla terra, mi sembra di essere nudo, di essere inutile, di essere morto». La razionalità, il ripudio di ciò ch'è stato per «esser d'oggi», per «rispondere ai gusti d'oggi» o "per andare incontro al popolo", frase di cui gli addetti alla cultura fascista si servirono abbondantemente» (ed è il Dalla Piccola che lo ricorda, chiedendo se «è aumentata la fede da quando la messa viene recitata in italiano»), ci ha condotto, di passo in passo, dalle «cantilene» lamentate dal Papa dieci anni or sono, a ciò che lo stesso Rossi, lasciando alla sua penna libero corso, scriveva nella sua indignazione lo scorso maggio: «Tutto il lavoro delle grandi teste in tanti secoli, la Chiesa dei preti vestiti da stagnini e dei vescovi con le croci di legno lo ha buttato nel ripostiglio degli stracci; e quando si sentono salire a Dio quei canti di adesso, si pensa alla faccia di Dio quando gli angeli, tappandosi il naso, glieli metteranno ai piedi del trono d'oro... La Chiesa ha buttato via l'augusta densità del latino, ha buttato via le stupende musiche e canti pieni di religione, pieni di paradiso; essi erano anche la tradizione, cioè le cose che durano, dentro il tempo che distrugge tutto; erano la poesia, cioè la scala per salire al cielo, anche solo per qualche ora, ma salire, anche in questi tempi di bassa marea. Ma hanno detto che quella era antiquaria, e ora ci volevano le cose nuove. Le cose nuove erano quelle che non può essere una religione antica, cioè essere una cosa nuova. Se la religione è esposta al tempo, essa non si può occupare della cosiddetta eternità...» Scriveva, via via più indignato: «I canti che si cantano adesso nelle chiese dànno una sofferenza indicibile; è come sentirsi grattugiare la pancia con una grattugia nuova ogni domenica; quelle voci di saracinesca, quelle cose puerili e stupide fino alla nausea sembrano uscire da una scatola di sardine guaste». E si sa che per non sentir quella sofferenza, per non provar quella nausea, molti sono tentati di dimenticar la domenica, molti hanno cessato di ricordarla: ciò che non era, si deve credere, nelle intenzioni anche se doveva essere nelle previsioni dei riformanti.
«L'abolizione del latino», scriveva Bergerac in un articolo intitolato Ite missa erat, «è stata decisa per una ragione demagogica, e anche perché si pensava che, più fosse stata compresa e meglio sarebbe stato per la fede. Invece, è stato dimostrato che più la Messa era e rimaneva un mistero, e più la gente ne restava affascinata. E più invece capisce cosa dice il prete sull'altare più se ne disinteressa: piaccia o non piaccia questa è la situazione... Si è detto: ma vedrete gli stranieri, che di latino non ne capiscono un'acca, come saranno contenti di sentirsi spiegare finalmente tutto in francese, in tedesco o in inglese. Neppure per sogno», e riferisce, per l'America, ciò che ha scritto un famoso settimanale di New York: «Per molti la traduzione in inglese della messa in latino è stato come osare di ridisegnare Notre Dame o Chartres sui modelli di un grattacielo d'uffici di Manhattan. La versione latina, con la sua patina di secoli e secoli, ha una qualità rituale maestosa che il vernacolo riduce ad una avvilente sciatteria», e «il risultato di tale convincimento», egli aggiunge, «è che in America le poche messe in latino sono frequentatissime: la gente si mette addirittura in treno da lontani paesi e città e fa centinaia e centinaia di chilometri per poterle ascoltare». E citata, per l'Inghilterra, la lunga lettera pubblicata dal Times, nella quale un centinaio di personalità (dallo scrittore Graham Green al violinista Yeudi Menuhin alla cantante Joan Sutherland) affermano, invocandone il ripristino, che «il rito latino appartiene non solo agli uomini della Chiesa e ai cristiani ma alla stessa cultura universale», conclude: «Detto dagli stranieri agli italiani che hanno avuto la bella idea di castrarsi della propria lingua madre per far piacere agli altri, rappresenta una bella lezione».
Una bella lezione, va proprio detto, ripetutaci, come s'è visto, da quei Vescovi lassù, per i quali e i loro fedeli il latino non è «la propria lingua materna» e Introibo ad Altare Dei è meno facile all'orecchio che Ich trete bin zum Altare Gottes... Una bella lezione, e io vorrei nuovamente illudermi, anche per questa: illudermi che dietro il loro esempio e l'esortazione del Papa torniamo anche noi a pregare, con essi e con tutta la famiglia cattolica, in quella che per noi nati e viventi all'ombra di Roma è doppiamente lingua materna. Pregare cantando, giubilando a Dio con le note che ai loro padri, come scrisse del gregoriano san Paolino da Nola, facevano sentire il Cristo a cui s'erano convertiti: «Barbari dicunt resonare Christum in corde romano» e a Cristo han portato, per saeculorum decursum (è Paolo VI, ancora, che parla), tanti a cui il cuore, precedendo la ragione, ha aperto la strada.


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