NEL FUMO DI SATANA
VERSO L'ULTIMO SCONTRO
Regali del Concilio

Come il padre Rotondi vesta - se in tonaca e collare o in pantaloni giacca e cravatta... come quel tale Gesù di Famiglia cristiana che non scaccia più i mercanti dal tempio perché ci fa anche lui i suoi affari - a me non è noto, ma che sia buono e bravo è fuori di dubbio, e gli si può perciò chiedere, dato che fabbrica in piazza, scrivendo su un famoso giornale, che sia coerente, che non manchi di rispetto, voglio qui dire, a chi ha messo già sull'altare.
Mi riferisco a un suo articolo (Il Tempo, 23 marzo scorso) contro i «giovannisti», accusati di tradimento, in parole e opere, nei riguardi di colui ch'essi antepongono e oppongono a tutti i papi succeduti a san Pietro, se non compreso anche lui, ed egli, Rotondi, considera «un santo vero» (non per dire, diamine, che gli altri siano fasulli), senza timore ch'essi, i «giovannisti», gli ritorcessero l'imputazione ricordandogli il suo disprezzo, implicito nella sua passione di riformista vernacolista, per ciò che Giovanni XXIII aveva così liricamente glorificato e fieramente difeso nell'Atto più solenne e più caro, per lui, del suo breve pontificato: quella Veterum sapientia esarata in esaltazione del latino, contro i «novatori» suoi avversari, ai termini della quale egli, il padre Rotondi, se la sarebbe vista brutta coi suoi superiori, severamente ammoniti, al pari dei Vescovi - «Sacrorum Antistites et Ordinum Religiosorum Summi Magistri» - di stare in guardia a che nessuno dei loro soggetti osasse levar la penna contro il latino in liturgia: «Ne quis... contra latinam linguam in sacris babendis ritibus usurpandam scribant»!
Item nei riguardi dell'altro grande pontefice, Pio XII, che il padre Rotondi venera (e vedere ciò ch'egli scrive circa «la sua santità, il suo atteggiamento di assoluta fedeltà a Dio», nell'articolo dello stesso giornale I miei incontri con Papa Pacelli), senza ricordare, né certo per amnesia, i suoi analoghi decisi veto, i suoi altolà a chi, con «temerario ardimento, si fa lecito di usar la lingua volgare nella celebrazione del Sacrificio Eucaristico», ammonendo che «sarebbe superfluo il ricordare che la Chiesa ha serie ragioni per conservare fermamente nel rito latino l'obbligo incondizionato per il sacerdote celebrante di usare la lingua latina».
Che il padre Rotondi sostenga con tanta sicurezza ciò che con tanta fermezza i due papi condannano, può davvero lasciar perplessi; perplessi e quasi sgomenti al vedere in questo, nell'esaltazion del vernacolo trionfator del latino, lui, padre Rotondi, a braccetto (per modo di dire, s'intende!) con la Zarri e il Balducci, per non citare che due antilatinisti miei famosi avversari, e dico con una che al titolo di campionessa del divorzio aggiunge, ora, quello di vessillifera dell'aborto; dico con uno, «teologo» come lei «teologa», che al pari di lei non crede nel diavolo e ride pubblicamente, impudicamente del Papa che professa di crederci: cosa in cui il padre crede, di cui teme, senza dubbio, la nequizia e le insidie, nonostante il suo benestare al licenziamento dell'Arcangelo armato dal servizio di guardia.
Povero padre Rotondi che, già viziato al bello dalla sua lunga consuetudine coi testi liturgici ora proscritti, come da quella dei suoi studi umanistici (una volta tanto in onore fra i Gesuiti!) non riesce a nascondere qualche involontario rimpianto, come allorché, costretto a citare, per chiarire un proprio pensiero, la preghiera, «non nuova, antica, antichissima, che rivolgendosi a Dio dice: Deus qui omnipotentiam tuam parcendo maxime et miserendo manifestas», gli scappa di aggiungere: «Questo bellissimo latino non si riesce a tradurlo bene, purtroppo!» E quante cose in questo esclamativo, questo «purtroppo» che vale, purtroppo, per tante altre preghiere, tante altre sacre bellezze, altre perle buttate come ghiande ai suini!

Povero padre Rotondi, costretto, dalla sua cotta vernacolare, a ignorar perfino il Concilio (col suo netto «servetur», si conservi, nei riguardi del latino liturgico) e dico «perfino», considerati i grandi meriti che, sempre in campo liturgico, et quidem della Messa, gli attribuisce, lui «giovanneo» come tiene a dirsi, in polemica coi «giovannisti», da cui tiene a distinguersi, come gli Zizola e compagni più o meno scarlatti. profittatori d'esso Concilio per le loro inconciliabili idee e azioni: «Il buon "giovanneo" gode nell'anima perché il Concilio - il Concilio convocato da Papa Giovanni - gli ha messo nelle mani 4 canoni, 82 magnifici prefazi, innumerevoli formulari di orazioni proprie e un patrimonio ricchissimo di letture...» Tutti «meriti», questi e altri (numerosi come i farmaci del dottor Dulcamara), che al buon papa Giovanni, latinista e uomo di gusto, avrebbero ricordato il ne quid nimis, sapendo come il «troppo», l'inflazione, svalorizzi la moneta, e non vi è dubbio, non vi può esser dubbio ch'egli si sarebbe opposto, a costo di non indirlo, il Concilio, o disdirlo senza rimpianto, se avesse potuto prevedere certi arricchimenti del patrimonio come quelli che ci ha messo nelle mani, nelle mani di tutti, grandi e piccini, come tutti, grazie al vernacolo e agli altoparlanti, siam posti in grado di ricevere (e guai a chi, invece d'ascoltate, dicesse poniamo la corona!)

Mi riferisco precisamente alle «letture» e chiedo a padre Rotondi per i suoi novizi, chiedo a zio Virginio per i suoi nipoti e pronipoti, bambini e bambine, adulti e giovani, se veramente gode nell'anima sapendo ch'essi ascolteranno, in chiesa, nel cuor della Messa, a pochi momenti dalla Consacrazione e dalla Comunione, verso cui i loro pensieri, come quelli del celebrante, dovrebbero convergere non invischiati da immagini come quelle contro cui il sacerdote, nel salire all'altare, fin qui pregava: «... ut ad Sancta sanctorum puris mereamur menlibus introire»; domando al «giovanneo» che aveva, a nostra edificazione, citato quelle parole di lui, «in tutta la mia vita non ho mai consentito a un pensiero impuro», e riferito, di lui, che «quando sul video appariva qualcosa di un po' scabroso chiudeva gli occhi»; domando se gli sembrano edificanti, cose da rallegrarsi e ringraziarne i riformatori della Messa, letture come, a mo' d'esempio, questa della terza settimana: «... ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone» (ognun capisce, ognun vede in che costume e in che atto); o come questa della settimana ventiquattresima: «C'è un tempo per gemere e un tempo per ballare, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci» (e tutti intendono di che abbracci si tratti: non quelli, forse, con cui zio Virginio accoglie i suoi nipotini quando vanno a trovarlo); o come questa della diciannovesima, buona per le levatrici, che metterà fra l'altro in un bell'imbarazzo, quando i figlioli domanderanno cosa vuol dire, le mamme ... anteconciliari rimaste forse alla didattica della «cicogna», antica quanto la sapienza pagana che ammoniva, con Giovenale, Maxima debetur puero reverentia e sul fanciullo cantilenava, rincalzando il lettino: Blande Somne, Somne, veni, claude Marco nostro ocellos... mentre quella cristiana d'ora, postconciliare, riformata, li vuole aperti, gli occhi, i cari occhini di Marco o Marcella che sia, crudendoli come appunto qui, in chiesa, alla Messa, nella lingua ch'essi possono e devono intendere: «Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato l'ombelico e non fosti lavata con l'acqua per purificarti; non ti fecero le frizioni di sale, né fosti avvolta in fasce... Come oggetto ripugnante fosti gettata via in piena campagna, il giorno della tua nascita. Passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue... Crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza: il tuo petto divenne fiorente ed eri giunta ormai alla pubertà; ma eri nuda e scoperta. Passai vicino a te e ti vidi: ecco, la tua età era l'età dell'amore; io stesi il lembo del mio mantello e coprii la tua nudità... Ti lavai con acqua, ti ripulii del sangue» eccetera eccetera.
Per padre Rotondi questo va bene, deve andar bene, anche se quelle donne, se quegli abbracci, quei teneri fiori di carne dovessero restare nella mente di chi ha letto o ascoltato, o riapparirvi mentre per le parole del sacerdote il Santo dei Santi è per scendere sull'altare o entrar sotto il nostro tetto per farsi una sola cosa con noi.
Quanto a me, pensando a quel «vae!» e a quella «mola» di cui in San Matteo, confesso che non vorrei esser, davanti a Dio, in quelli che hanno immesso nel Sanctum Sacrificium queste e altre simili cose, queste occasioni di distrarsi, per il celebrante - un uomo, anche lui! - come per i fedeli, disarmati, senza sospetto contro il pericolo, dalla loro stessa fiducia nella persona, nel luogo, nel libro e in chi lo scrisse.

A ciò pensando, molti sacerdoti, come sappiamo, hanno sdegnato quelle letture, ed è buon segno, è obbedienza, anche se apparentemente il contrario: obbedienza a Colui cui obedire oportet magis quam homimbus e vuole che l'obbedienza, l'ossequio, sia ragionevole, «rationabile», come non sarebbe il consentire, per passivismo, a che il Messale, opera d'uomini, sia il «galeotto», il mezzano, fosse pure per «solo un punto», fosse pur d'un solo peccato.

Buon segno, obbedienza a Dio, come il rifiuto di cui Sandro Dini riferiva, sul Tempo, sotto il titolo I preti di Milano durante la Messa hanno ignorato i problemi sessuali: «In tutte le chiese di Milano e della Lombardia (ma anche del Veneto) i celebranti, per esortazione dei vescovi, avrebbero dovuto parlare, ieri, durante la Messa, dei problemi dell'educazione sessuale, illustrandone i temi più scottanti, quali il controllo delle nascite, l'onanismo, i rapporti prematrimoniali... Per la prima volta nella Casa di Dio si sarebbe dovuto parlare "chiaramente" di questi temi, considerati sino a ieri argomento della "casa del Diavolo" o quanto meno riservati alla segretezza e alla discrezione del confessionale. Ma l'«esortazione» dei presuli ai pastori di anime non è stata, a Milano, accolta, ad eccezione di qualche parrocchia della periferia, di qualche paesino lontano dalla città...» Interrogati dal medesimo giornalista, alcuni di questi preti han dichiarato, «anche in termini piuttosto energici», le ragioni di questa loro sacrosanta contestazione (l'opposto di quell'altra), di questo loro no al sesso in chiesa, alla Messa, riassumibili in queste parole d'un di loro, don Luciano Spreafico: «Ci mancherebbe altro che ci mettessimo a parlare di queste cose dal pulpito. In una società pansessuata come l'attuale sarebbe come buttare olio sul fuoco. No, non tratterò mai di queste cose nel corso della Messa. In confessionale, certo, ma durante il Sacrificio mai».
Ci mancherebbe altro, ed è così che han ragionato, anche loro, i correligiosi milanesi di padre Rotondi, trattando tamquam non esset l'ordinanza episcopale Ionibardo-veneta: «Neppure una frase», rapporta infatti lo stesso Dini, «è stata pronunciata nella Chiesa di Sant'Ignazio dai padri gesuiti del Leone XIII, che pure sono considerati fra i più aperti e più attenti ai problemi, specie della gioventù».
Anche loro, e chissà se in questo sarebbe stato con essi il confratello romano, aperto anche lui ai problemi dell'oggi ma chiuso a ogni rimostranza sull'azione o l'inazione dei vescovi, i quali, sembra dica, han sempre ragione, o almeno gli si deve dare, ossia si deve «rispetto e filiale obbedienza» qualunque cosa insegnino o facciano, o lascino che s'insegni o si faccia: in parole sue, e senza riferimento a una famosa massima vigente un tempo in caserma, «non solo quando si è d'accordo, ma anche - direi soprattutto - quando ci si trova in disaccordo».

E ciò che risponde, così semplicemente, a chi, da genitore cristiano, gli chiede se, per il bene dei figli, la «ribellione», in certi casi, non sia «un dovere»: se sia lecito, in altri termini, «tollerare che dei sacerdoti insegnino, ai figli loro affidati attraverso la parrocchia, delle menzogne e delle eresie», come quelle che «è sacramento anche il matrimonio celebrato con il solo rito civile; che per la remissione dei peccati basta il pentimento e non serve la confessione; che i figli sarebbe bene battezzarli a trent'anni come Gesù»: menzogne, eresie, «tradimenti», di cui «la responsabilità risale ai vescovi», con la loro tolleranza verso i maestri, lasciati senza riprensione ai loro posti, alle loro cattedre di pestilenza, con l'aggravante che «quei sacerdoti, attraverso la scala gerarchica, parlano in nome del Papa, vescovo di Roma». Ed è un vescovo, il cardinale Poletti, vicario del Primo Vescovo, che convalida in certo modo l'accusa del semplice laico parlando - non senza, io penso, battersi ruvidamente il petto, sia in latino o in volgare, se più gli aggrada, il Confiteor - di «nostra responsabilità» in ciò che potrebbe accader fra breve, e Dio voglia non sia troppo tardo l'allarme, in Roma, e sarebbe il peggiore dei suoi mali: la «città di Dio» caduta in mano dei senza-Dio, l'insegna della falce-e-martello, la sanguigna bandiera dei nemici di Cristo, issata, con l'aiuto di mani e braccia cattoliche, laiche ed ecclesiastiche, in faccia alla Croce di Cristo per rimanervi meno fuggevolmente di quel che già non presunse l'uncinata croce hitleriana.
Il padre Rotondi - a cui ritorno per mia difesa perché anch'io sono, com'egli vede, un «ribelle» - deplora anche lui quei «casi», esclamando: «dove siamo arrivati!» senz'aggiungere, che sarebbe troppo, per lui, «dopo il Concilio», ma il suo consiglio è di «dirottare altrove», verso altri preti, i figlioli in pericolo d'esser dirottati dai «loro preti», anziché pretender dai vescovi che dirottino i dirottatori verso dove sarà meglio per essi e i fedeli... magari verso una casa di esercizi spirituali secondo il metodo di sant'Ignazio. Ai vescovi, egli dice, «non dobbiamo noi insegnare come si governa la loro Chiesa», e siam d'accordo, ma non d'accordo quand'egli vuol giustificare col numero il torto aggiungendo che se così fan tutti, o i più, «se questo atteggiamento, diciamo così, remissivo dei vescovi, è quasi generale, una qualche ragione dovrà pur esserci» e noi padroni di stridere ma non di criticare o resistere.
Buon per noi, per la Chiesa, che così non ragionarono, dopo Nicea, gli Atanasio, Ilario, Cirillo, rimasti con pochi laici a sostenere la dottrina cattolica, pagando con l'esilio la fedeltà, allorché non «quasi» ma «tutto il mondo», universus orbis, con la quasi totalità dell'episcopato, se arianum esse miratus est; buon per noi, per la Chiesa, che così non ragionarono Giovanni Fisher, un vescovo, e Tommaso Moro, un laico, che contro «tutti gli altri vescovi, teologi, nobili, senatori del Concilio, degli stati e di tutto il regno» (come dall'atto di accusa, citato dal Davanzati), dissero no, in Inghilterra, al divorzio e allo scisma e lo pagarono con la testa. Così, salendo lietamente il patibolo, essi scontarono la loro ribellione al re ribelle alla Chiesa, anziché chiedersi, davanti a una defezione degli altri così generale, se una qualche buona ragione non dovesse pur esserci. Cosa che, umanamente, sarebbe loro giovata.


precedente

indice de
«Nel fumo di satana»

home

prossima