NEL FUMO DI SATANA
VERSO L'ULTIMO SCONTRO
Sulla via del passato

Solo che crediamo e preghiamo e operiamo, la «bara» non infrangerà dunque la nostra speranza: la nostra Messa tornerà ad allietare la nostra giovinezza, a dirci Ite, est, per riprendere e continuare In principio erat... come da secoli per tutti i secoli... Considerando i risultati di un decennio e deducendone che «la riforma liturgica è stata un fallimento spaventoso», il padre Crane avverte per altro che «non è ancora troppo tardi per ritornare sulla via del passato, It is not too late to return to the ways of the past», e vede nella mia opera «un appello pressante perché la Chiesa lo faccia senza indugio».
Perché lo faccia occorre intanto che lo facciano - e tutta la mia opera, dalla Tunica stracciata a questo Fumo di Satana, dimostra con argomenti e documenti inoppugnabili perché della Chiesa stessa, Tradizione, Papi e Concili, ch'essi possono e devono farlo - coloro che nella Chiesa reggono e guidano direttamente i fedeli. Parlo dei sacerdoti e particolarmente dei parroci, che io venero, per tutto quello che ne ho avuto e mi aspetto, da quello che un lontano giorno mi disse: Ego te baptizo, ai tanti che via via mi han detto: Ego te absolvo, a quello che mi dirà, al capezzale: Proficiscere, Vai, e sulla bara mi ridirà, mi canterà dove: In Paradisum deducant te Angeli... A tanti sacerdoti - e vescovi e cardinali! - io devo gratitudine per i memento di cui mi so quotidianamente beneficiato e da cui non dubito mi provenga l'aiuto, la forza e la serenità con cui persevero in questa battaglia pro Ecclesia, nella quale se mi consola l'aver tanti e tali amici, mi amareggia l'aver «nemici» come me appartenenti e affezionati alla Chiesa ma divisi nel modo di riconoscerla, di amarla e di servirla, in tanto smarrimento come il presente coi tanti «profeti» e «cristi» in giro a dire: «Ecce, hic est». Auguro a questi di riconoscere ch'essa, la Chiesa - la vera, la nostra, una santa cattolica apostolica - è dov'è sempre stata, o è tornata dopo ogni trasmigrazione o deportazione subita a opera degli uomini; e spero in quelli per il suo ritorno, dalla presente cattività in terra aliena, sui lacrimati fiumi babilonesi, al Tevere, a quella romanitas che Paolo VI, con riferimento alla liturgia, chiamò «fundamentum nostrae catholicitatis».
Sappiamo che non pochi di loro sono restati e restano, nell'esilio, fedeli alla patria - sì bella, è vero, e perduta -, fedeli ai canti di Sion, a quella Tradizione di cui il santo Pio X equiparava il valore a quello della parola di Dio rivelata e ne inculcava l'osservanza con specialissimo riguardo «alle parole e ai riti della Sacra Liturgia».
Il loro merito è grande: essi fanno, così, in vista e in attesa del «ritorno», ciò che i «pii sacerdoti» detti nel libro dei Maccabei fecero al tempo che gli ebrei furono schiavi in Persia, custodendo in luogo sicuro il fuoco del Sacrifizio fino a tanto che «piacque a Dio» liberarli e il fuoco, così tenuto in vita, continuò a vivere in Israele, dopo aver fatto, per ordine di Neemia, la sua trionfale riapparizione sull'Altare con una festa che sciolse lacrime di gioia mentre anche il sole, nota il sacro cronista, «il sole, che prima era tra le nuvole, mandava nuovamente fuori i suoi raggi».
Non sappiamo chi sarà il Neemia, il Sommo Sacerdote che farà di nuovo uscir dalle nubi il sole restituendo a Israele, alla Chiesa, il suo Sacrifizio.
Nell'attesa, la nostra gratitudine va a loro, tanto più sentita quanto più sappiamo che non è senza contrasto questa loro perseveranza nella custodia del «fuoco», seppur confortata da ciò che il Manzoni, con san Paolo, chiama «il testimonio consolante della coscienza». Non li diremo, per questo, eroi - lasciando il titolo a chi per la Fede fa e sostiene ben altro, nel grande bagno penale di là dal Muro e dalla Muraglia - se per eroismo si vuole intendere qualche cosa di più che fare il proprio dovere; né li compiangeremo troppo per la loro solitudine, in mezzo a tanti confratelli il cui «ossequio» rinunzia a esser «ragionevole» per esser solo conforme, ciecamente conforme, sia pure palesemente difforme dalla legge e dalla ragione.
Non sottovalutiamo la pena di questo dover disobbedire per obbedire - disobbedire agli uomini per obbedire a Dio, alla coscienza -, ma «à periode tragique réactions héroiques», come scrive uno dei più autentici servi della Chiesa in Francia, l'abate Louis Coache, in un suo forte appello ai primi responsabili della tragedia, che non teme d'intitolare Evéques, restez catboliques! Un appello che noi, per i nostri, e al fine specifico per cui scriviamo, ci limitiamo tradurre: Vescovi, restate vescovi, restate voi, credete a voi, alla vostra parola, ai vostri «servetur» o «ne innovetur», o almeno non riprendete, non condannate, non date la caccia ai custodi di quel «fuoco sacro» (si tradiscano con un Dominus vobiscum o con una genuflessione) che vi credono e fanno questo credendo che anche voi ci crediate.
Per questo io reagisco, senz'altro rischio, per dire come di sé il Bernanos (l'autore del Sole di Satana: i nostri titoli si richiamano), che quello di «sentirmi rifiutare il nome di cattolico da della povera gente più ricca di vanità che di scienza e che farebbe bene a tornare al catechismo... Rifiutare a me che non vivrei cinque minuti fuori della Chiesa e se ne fossi cacciato vi tornerei subito, a piedi scalzi, con la corda al collo; a me che per nessuna ragione al mondo, essi lo sanno, scriverei una sola parola contro la Chiesa».
La Riforma, quando il Bernanos scriveva così - quando diceva della Chiesa, nella sua passione di figlio che la voleva santa e bella, «io l'amo dolorosamente, l'amo come la vita» - la Riforma, la rivoluzione di marzo, era ancora lontana e mi domando che cosa avrebbe detto se ci si fosse trovato, che cosa avrebbe fatto scrivere nel suo Diario al suo Curato di campagna.


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