IL PANE SOTTO LA NEVE
XXXIV - SAN FELICE

Il quattordici di gennaio, chi si chiama Felice l'è la sua festa: San Felice prete e martire.
A non starci attenti c'è da passarla senz'avvedersene, perchè quel giorno è anche la festa di un altro santo, che nel messale e nel breviario, come anche in molti lunari, ha la precedenza: sant'Ilario vescovo e dottore.
Cedendo alla mitra, sacrificandosi, per modo di dire, a vantaggio di un vescovo, san Felice ripete nel calendario ciò che fece in vita, per comando di Dio, a vantaggio del suo proprio pastore, Massimiano, vescovo di Nola.
C'era la persecuzione, e Massimiano, temendo per la vecchiaia di non poter reggere ai tormenti, aveva seguito il consiglio di nostro Signore: «Quando vi perseguitano in una città fuggite in un'altra». Invece che in una città, s'era rifugiato, per dir proprio, in una foresta, e i disagi del luogo, uniti a quelli dell'età e della stagione invernale, lo compensavano dei patimenti ai quali, diffidente di sè, non di Dio, s'era con la fuga sottratto. I disagi stavan per vincerlo, e Dio, che aveva visto umiltà in quel che ad altri poteva parer viltà, lo soccorse mandandogli il prete Felice.
Il prete Felice era un uomo di cuore: ai poveri aveva dato fino da giovane tutto quello che aveva, riserbandosi il sangue per darlo a Cristo nel martirio. Ed era impaziente, prete Felice, che Cristo gli pigliasse quell'unica cosa che gli restava, impaziente, dico, di sdebitarsi dicendo a Cristo «questo è il tuo sangue», dopo tante volte aver detto: «Questo è il Mio sangue». Nella sua impazienza, egli, non in sè fidente ma in Dio, andava come aizzando i persecutori, col predicar pubblicamente la fede cristiana, col dir male degl'idoli, con l'incoraggiare i perseguitati alla resistenza. Ciò che voleva non tardò, così, a ottenere: preso e menato dinanzi ai giudici, attestò col sangue la f ede, l'attestò gioiosamente, e se la sua gioia non fu piena fu perchè non pieno il martirio, non piena da parte di Cristo la comunione come da parte di Felice era stata piena l'offerta, perchè il carcere e non la morte fu la conclusione dei supplizi. Il carcere stesso era supplizio, il carcere tutto cosparso di vetri e cocci taglienti, su cui il martire, in catene, doveva posare le sue ferite.
Calmo, placido, come se riposasse sopra un letto di rose, Felice dormiva in quel suo letto di lame allorchè, una notte, fu improvvisamente riscosso. Era forse il carnefice che veniva a compiere il suo desiderio? Era invece un angelo che veniva a trarlo di prigionia, ordinandogli da parte di Dio che, andasse in cerca di Massimiano, il vescovo fuggito, e lo ristorasse e lo mettesse al sicuro.
Al tocco del messaggero celeste, caddero come cera al fuoco le catene del martire; le piaghe gli si richiusero; si apersero le porte del carcere, e Felice ne uscì, invisibile alle guardie, per correre a salvar Massimiano.
Felice era un uomo di cuore; e non lo dico ora per riguardo a quanto fece in pro del suo vescovo (chè Dio stesso, oltretutto, glielo comandava) ma per una circostanza del suo viaggio la quale si legge in questa pagina e serve appunto a mostrare la delicatezza del suo cuore, come servirà, a chi ci vorrà credere, per mostrare qual conto faccia d'ogni minima azione buona Colui che tiene conto del bicchier d'acqua dato in suo nome.
Stanco per molte ore di strada, il pellegrino s'era fermato un momento, tanto per ripigliar fiato, a piede di un albero. Quando fa per rialzarsi, si accorge che un ragno, scambiando forse il suo bastone, appoggiato all'albero, per un ramo dell'albero stesso, vi ha fissato uno dei capi della sua rete, intorno alla quale è ancora intento... Felice guarda con affetto l'umile, tacito tessitore, pensa che quella tela, fragile come la nebbia, è il suo sangue, e per non guastare la fatica, per non sacrificare il sangue del piccolo operaio, lascia il bastone dov'è e si rimette in cammino senza sostegno.
Virga tua et baculus tuus, ipsa me consolata sunt. Con l'aiuto di Chi lo manda, Felice giunge al rifugio di Massimiano, e trova il povero vescovo per terra privo di sensi, simile a un morto e ormai vicino a morire. Volge attorno gli occhi in cerca di qualcosa da rianimarlo, e vede pender da un pruno (nel cuor dell'inverno) un bel grappolo d'uva. La coglie, la sgrana, l'ammosta a chicco a chicco fra i denti del poveretto, ed egli schiude le ciglia, riconosce il prete, sorride... Felice se lo prende allora sulle spalle, lo porta fuori della foresta e gli trova nella casa di una pia vedova sicuro alloggio e cure devote.
Assolto in tal maniera il suo compito, torna, correndo, alla battaglia e, risoluto questa volta di strappare in ogni modo l'ambita palma del trionfo, ripete con maggior forza i suoi attacchi contro la religione nemica e persecutrice. Ma Dio ha disposto diversamente di lui. Il sangue ch'egli ha sparso, le catene di cui è stato coperto già l'hanno ascritto martire nel libro della nobiltà eterna, dove pur figurava prete. La sua ambizione può esser paga, anche se la vita gli resta, e Dio vuole che gli resti tanto che vegga la fine della battaglia, la disfatta dell'errore, la vittoria di Cristo nella vittoria della sua Chiesa. Le cicatrici dei feriti orneranno anch'esse il trionfo, e non varranno meno delle reliquie dei caduti a rammentare ai nuovi cristiani il prezzo della pace.
Assalito con maggior furore dagli idolatri già delusi per la sua scomparsa dal carcere, egli li delude ancora una volta con un'astuzia di colomba sorretta da un prodigio altrettanto semplice. «Sai dirci dov'è Felice?» chiedono proprio a lui i soldati che lo inseguono, non conoscendolo di persona. E Felice, senza mentire: «Non l'ho mai visto in viso. Ho visto bene un uomo da questa parte... » Detto questo e partiti gl'inseguitori, egli fugge dalla parte opposta; ma i soldati, accortisi dell'inganno, non tardano a dare addietro, tanto più accaniti di prenderlo. quanto più irritati dalla beffa... Eccoli a pochi passi da lui. Non vedendo altro scampo, Felice si nasconde - senza che creda di salvarsi - in una caverna. Ed ecco il prodigio. Egli è appena scomparso fra i massi che una bella tela di ragno viene a disporsi su tutta la bocca della spelonca, dando a credere che nessuno, da tempo, vi abbia messo piede. I soldati infatti, giunti e vista la ragnatela, stiman tempo perduto indugiarsi a guardare. - Putasne per haec fila homo transiit, quae saepius tenuitas muscarum rumpit? - E col loro latino si rimettono a correre, senza neppur sognare di che presa sia stata capace una volta tanto una tela di ragno.
Ma non è la tela, non è la spelonca: è Dio che coi mezzi più umili protegge e salva i suoi figli, dei quali ha numerati i capelli; e lo dice Paolino, il poeta romano, il cantor di Felice: Ubicumque Christus adest nobis, et aranea murus fiet; et cui Christus abest, et murus aranea fiet: «Per chi è con Cristo, anche una ragnatela è un muro; e per chi è fuori di Cristo, anche un muro è una ragnatela ».
Felice, che lo aveva esperimentato in se stesso, lo esperimentò in ben più larga maniera allorchè vide la «debolezza» e la «stoltezza» della Croce elevata sulla potenza e la sapienza pagana non con altre armi che una fede fidente in Chi aveva detto «non prevarranno», non con altri argomenti che il nome di Gesù Cristo.
Tornato a Nola allorchè la Chiesa incominciava a gustar la pace, egli dovette ancora lottare, sebbene contro rivali diversi e per diverso motivo, cioè contro i suoi concittadini che lo volevano vescovo. Rifiutò, pago di aver portato sulle sue spalle chi portava tale dignità, e, ricco di nuovi meriti, passò sorridendo, venti giorni dopo Natale, agli onori indeclinabili di cui Cristo è dispensatore.

Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2, pp. 224-230.


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