La processione usci, all'ora
stabilita, dalla porta scardinata della basilica, e un ampio sussurro di commozione
l'accolse, al suo primo apparire, da parte della folla fuori in attesa: il Vescovo,
che l'apriva, in piviale cinereo più che violaceo, reggendo fra le mani, la
fronte appoggiata al legno, una nuda croce, aveva ugualmente nudi i piedi e portava
ai fianchi, sul camice, in funzion di cordile, una rozza corda. Piedi e piviale e
camice recavano i segni del fango, scuro e fetido, che la grande alluvione aveva
rovesciato dentro la chiesa, senza rispetto per gli altari, i sacri arredi, le suppellettili,
gli scanni del clero e la stessa cattedra episcopale. Proprio su questa, l'onda limacciosa
aveva travolto e fermato, insieme al pezzo di fune chissà da dove divelto,
di cui il Vescovo s'era cinto, uno degli antichi corali - già messo via perchè
non più «buono», scritto com'era in latino e conformemente annotato
- aperto a una pagina su cui, benché melmosa, si poteva ancora leggere, e
si leggeva: «Immutemur habitu, in cinere et cilicio: jejunemus, et ploremus
ante Dominum: quia multum misericors est dimittere peccata nostra Deus noster».
E, di seguito, ancora: «Inter vestibulum et altare plorabunt sacerdotes ministri
Domini, et dicent: Parce, Domine, parce populo tuo...»
Al canto di quelle stesse parole la processione si mosse, e si sentiron voci rotte
dal pianto ripetere, dietro il clero:
«Parce, Domine, parce populo tuo: ne in aeternum irascaris nobis...»
Era un rito di penitenza, un plorare e implorar di peccatori pentiti, e il clero
intonò il salmo Cinquanta, quello che David compose «quando andò
da lui il profeta Natan, dopo ch'egli era stato da Betsabea»:
«Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tua». E il popolo,
seguendo a capo chino tra la belletta nera e nauseabonda di quella ch'era stata una
delle più attraenti vie cittadine, ripetè, singhiozzò di nuovo:
«Parce, Domine, parce populo tuo...»
Il clero continuò a supplicar, con David, appellandosi alla moltitudine delle
misericordie divine:
«Et secundum multitudinem miserationum tuarum dele inquitatem meam!»
E il popolo di nuovo a gemere:
«Parce, Domine, parce populo tuo..»
Dietro a quelle della basilica, le campane di tutte le chiese, dolenti o condolenti
con lei, la madre, partecipi della stessa sventura, suonavano a rintocchi, a singulti
- come per le esequie dei morti, e c'erano ben anche dei morti, senza esequie sepolti
dentro la mota - e ben s'udiva la loro voce ora che sola era rimasta, ora che non
più la coprivano le musiche dei tanti caffè, dei tanti cinematografi,
nè lo strepitar delle macchine, semoventi per ogni verso a migliaia: a migliaia
ora lì, per quelle medesime strade e piazze, ferme, capovolte, schiacciate,
l'una contro l'altra, l'una sopra l'altra ammucchiate, sconce a vedersi, umiliate
nella loro bellezza, nel loro orgoglio di correre, di sopravanzarsi.
«Amplius lava me ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me... Asperges me
yssopo et mundabor, lavabis me et super nivem dealbabor...» A ogni nuova strofa
del clero - succedente a lunghi silenzi, durante i quali si sentiva il guazzar dei
piedi nella lurida melma - il popolo rispondeva sempre con quella: «Parce,
Domine, parce populo tuo...» ed era una voce, un gemito che saliva sempre più
forte, che arrivava al Vescovo, in testa, sempre più di lontano: segno che
la processione, dietro dietro, acquistava sempre più gente, che la croce traeva
sempre più a sè.
«Averte faciem tuam a peccatis meis et omnes iniquitates meas dele...»
Gli occhi bassi e la fronte appoggiata al legno, il Vescovo, segretamente, piangeva...
Era dolore per i propri peccati, come la sua nota virtù poteva far credere?
Era amore per la sua città così desolata? Era commozione per quella
cosi insperata partecipazione dei suoi figlioli all'austero rito? A questa si poteva
pensare, unita all'altre ragioni, ed era vero, solo che, prima che commosso, egli
si sentiva umiliato da quella grande risposta dei suoi figlioli al suo invito: umiliato
per non avere giustappunto sperato, quanto dire creduto, al punto di chiedersi se
aveva davvero amato, amato bene, in quanto Vescovo, quei suoi amatissimi figli...
C'era voluto infatti quel caso (se «caso» si poteva chiamare, e tale
non era parso ai suoi occhi), dell'antico corale ritrovato aperto a quella pagina
sulla sua cattedra perch'egli avesse il coraggio d'indir quella penitenza che poteva
richiamare, in un mondo, in un tempo cosi diverso e «progredito», la
penitenza di Ninive.
Ninive, la «grande città», la «metropoli di tre giorni di
cammino», immagine del gran mondo, di cui la sua poteva considerarsi un ristretto,
ed egli si sentiva, si accusava d'essere stato, non tanto di fronte al fango che
la imbruttiva ora esteriormente quanto di fronte a quello che la faceva ieri «bella»,
d'essere stato il profeta di poca fede mandato a lei perché predicasse contro
la sua «malvagità», il suo edonismo, la sua frenesia del «benessere»,
perché la richiamasse alla penitenza, e non ne aveva avuto l'animo, aveva
taciuto e s'era nascosto. «Giona, al contrario, si levò per andare a
Tarsis, fuggendo dalla faccia del Signore. E il Signore scatenò un gran vento
e venne una gran burrasca...» Era un venerdì, quel quattro novembre,
uno dei primi venerdì non più «venerdì», e il Vescovo
si chiedeva, incedendo a fatica tra gli ostacoli di quelle vie così ridotte
dalla grande burrasca, si chiedeva fra le lacrime se non ci fosse rapporto tra la
rottura degli argini che aveva, con la fame e la sete, portato il fango fin sugli
altari della basilica, e la rottura o lo scalzamento di quel precetto del digiuno,
argine e scolmatore (come fin qui s'era tenuto) contro i turgori del peccato, a cui
egli aveva contribuito nell'intento di rendere più agevole, meno «arcta»
ai pellegrinanti cristiani la via della vita. Allo stesso fine, con la stessa paterna
benevolenza, egli aveva or ora concesso che i suoi fedeli anticipassero alla vigilia
l'assolvimento del precetto festivo, così da poter tutta dedicare allo svago,
in campagna, sui monti, al mare, la giornata domenicale, fidando che non si sarebbe
fatto del giorno sacro un giorno interamente profano, del dies Domini - attesa
la specie degli svaghi - un dies Daemonii. E vedendo ora, in questa domenica
successiva a quel venerdì, a quale svago attendessero di necessità
quei suoi figli, vedendoli, ricoperti di fango, rivoltar tristemente il fango nel
buio delle loro case, botteghe e negozi, egli n'era tutto confuso quasi ne fosse
responsabile, quasi si fossero anche per questo avverate le minacce di Amos: «Le
vostre feste si cambieranno in lamenti e in lutto».
Così, nella sua profonda umiltà, egli applicava a se stesso (per non
aver chiesto agli altri di fare ciò che per sè pur faceva, e duramente
faceva) le parole del Maestro: «I Niniviti vi giudicheranno e condanneranno,
perch'essi fecero penitenza», e ricordava, a sua confusione, il rigore di quella
penitenza, ch'egli, Giona pentito, aveva pur esitato a chiedere in minima misura
ai suoi: «E quei di Ninive credettero e intimarono un digiuno e si vestiron
di sacco dal più grande al più piccolo e il re scese dal suo trono,
gettò il suo manto, si copri anch'egli di sacco, sedè nella cenere
e a suo nome uscì un bando: - Uomini, bestie, buoi e pecore si astengano da
qualunque cibo, non vadano al pascolo e non bevano, si copran di sacco uomini e animali,
e gridino con tutta la loro forza verso il Signore. Chissà che Dio non si
penta e ci perdoni...? -»
Il fango che rivestiva ogni cosa aveva - come il piviale del Vescovo - il colore
del sacco, e non mancava, pur qui, il grido degli animali digiuni, dentro e fuori
della città: il nitrir dei cavalli, il mugliar dei buoi, il ragliar degli
asini, il belar delle pecore, lo strider dei porci, il guair dei cani famelici, dentro
l'acqua che saliva, saliva... e questo soffrire dell'innocenza, questo espiare di
quelli che non avevavan peccato rendeva più accorato il pregare di quelli
che avevano.
«Tunc acceptabis sacrificium iustitiae, oblationes et holocausta; tunc imponent
super altare tuum vitulos...» Era, per bocca del clero, l'ultimo verso del
Miserere, il salmo della colpa che piange, e piangendo spera, e il popolo
ripeté, ancora una volta:
«Parce, Domine, parce populo tuo...»
Si era intanto tornati alla porta della basilica - senza varcarla, incapace come
pareva di accogliere tutti quelli ch'erano venuti dietro alla croce - e qui, cantate
in ginocchio le grandi Litanie, col clero che chiamava Dio, Maria Vergine, gli Angeli,
i Santi, e il popolo che via via supplicava: «Miserere», «Ora»,
«Libera», «Parce», «Exaudi», «Miserere»,
il Vescovo, levatosi in piedi, quei piedi intrisi di fango non senza ora tracce di
sangue, disse, singhiozzò le grandi deprecazioni finali:
«Deus, cui proprium est misereri semper et parcere... Deus qui culpa offenderis
poenitentia placaris, preces populi tui supplicantis propitius respice, et flagella
tuae iracundiae, quae pro peccatis nostris meremur, averte...» E fu allora
che il cielo, fin lì chiuso e piovorno, s'aperse lasciando veder nell'azzurro
il sole, mentre un colombo, calato a volo dall'alto della basilica, veniva a posarsi
sopra la croce... Il grido della folla fu, ossia parve a me, tale ch'io mi svegliai
e insieme al sonno il sogno finì.
Era stato difatti un sogno e me ne rimase a lungo, con l'incanto, il rimpianto.