Con tutti i titoli di cui
dispone per rimaner nella storia della letteratura - fra i più insigni maestri
della «lingua nostra» -, Ettore Paratore rischia, per i più, di
restarvi per via di Mao.
Alludo al fatto scolastico del mese scorso, e non dico che sia, anche questo, un
piccolo titolo, un piccolo servizio reso appunto al latino, in quanto ha potuto far
vedere che in latino, la lingua doppiamente romana, si può rendere anche il
cinese, il pensiero cinese, sia pur cino-marx-stalinista come le massime ossia il
vangelo di Mao, e io non dubito che le gialle cicciute gote del rosso budda vivente
si siano, a tale notizia (una sua pagina data a tradurre in latino), increspate d'ilare
gioia, sia pur con beffa dei suoi devoti di Roma, più cinesi dei suoi propri
di là.
Si sa, d'altronde - così mi ha detto per l'appunto un «cinese»
nostrano - che il programma culturale di Mao comprende la riforma della scrittura
mediante l'adozione dei caratteri latini, scontrandosi, anche lui, in questo, coi
nostri riformatori liturgici che pur di cancellar la memoria di ciò che aborrono
come i cani arrabbiati il suono delle campane, adotterebbero magari il cinese, e
dico gli ideogrammi perchè in quanto a ideologie, Mosca sta per essere scavalcata
in direzione di Pechino.
Quanto a me, io mi rallegro che Paratore - un dei «nostri», come non
poteva non essere: uno dei «patiti», anche lui, della «lingua cattolica»,
della «lingua propria della Chiesa», della «lingua materna dei
figli della Chiesa»: tutte definizioni papali e conciliari recenti del latino
liturgico - sia sceso in campo, anche lui, a difesa di ciò che stoltamente
si attacca da chi dovrebbe, per ragioni religiose prima ancora che letterarie, esserne
il più geloso custode. Sceso a viso aperto, con le armi di cui la prima è
il suo nome, rafforzando già pur così quella «pattuglia di resistenti»
di cui parla nel suo più recente libro (Filosofia e Antifilosofia)
Michele Federico Sciacca, onorato anch'egli di farne parte sebbene non ignaro del
costo: «la congiura del silenzio, il disprezzo... il sentirsi isolati... anche
se si sa che non mancano amici, ma pur loro isolati».
Mi riferisco alle pagine, veramente magistrali, con cui il Paratore ha introdotto
la traduzione italiana (curata da Edith Schubart, editore Volpe) del libro di Louis
Salleron La subversion dans la Liturgie, di cui, per dir molto in poco, dirò
soltanto ch'esso meritava, da un tal prefatore, una tal prefazione. Della quale,
anzitutto e subito, va detto (come del libro) che il sovvertimento - o il sovversivismo,
per esprimerci in termini politici equivalenti - ha progredito, frattanto, e progredisce
via via a un tal passo di carica che il cardinale Heenan, sull'Osservatore Romano,
ha potuto, ironicamente, definire «antidiluviani» testi liturgici
editi «appena cinque anni fa», e chi non ha potuto direttamente ha potuto
almeno vedere in foto le gambe della suorina che ballava, in chiesa, alla Messa,
davanti all'altare e a cinque preti parati, sorpassando, così, rendendo antidiluviane,
le pur recenti iniziative vescovili di Arezzo e le aspirazioni di Ravenna, dove la
parte era commessa a gambe secolari e maschili.
Quest'ultima, le suore che ballano (emulando non so se David o Salomè), era
di fatto così lontana dalle previsioni del Paratore, che, dopo essersi chiesto
«che cosa verrà fuori quando ogni collettività nazionale, anche
quelle afro-asiatiche di recente costituzione, avrà partorito la sua versione
dei testi liturgici», e aver chiesto a noi: «Ve le immaginate le proposizioni
ereticali, i fraintendimenti, le approssimazioni sovvertitrici che verranno fuori
dalle versioni del Credo in senegalese, in bantù eccetera?» si
chiede e ci chiede, ripetendo in termini propri il confronto maritainiano tra il
modernismo di Pio X, della Pascendi, e quello d'oggi, del giuramento antimodernista
abolito: «Ma questo che cosa può ormai interessare gli ambienti ecclesiastici
più avanzati, i farneticatori dell'età post-conciliare, appetto ai
quali i più radicali rappresentanti dell'indirizzo modernista fan la figura
di disciplinatissime clarisse, i dialoganti che mettono in discussione i dogmi
fondamentali, che accantonano il culto della Vergine e il suo posto nel complesso
dell'interpretazione cristiana della condition humaine, che arrivano a dubitare
della divinità di Cristo?»
Cui siamo tentati di rispondere prolungando la domanda. Che cosa può ormai
interessare eccetera eccetera quando non ci si fa caso di offender Dio e scandalizzar
chi ci crede sconsacrando la domenica, degradandola, per dirlo con le parole
di un giornale non bacchettone come il Corriere, «da giorno del Signore
a giorno dell'Automobile», o quando la radio del Vaticano, valorizzando una
femmina che (sue parole) «prima di esibirsi sente il bisogno di bere un bicchiere
di wisky e di fare l'amore, con preferenza a quest'uopo per i capelloni come più
malleabili», mette in onda, la domenica, canzonette come La morte
di Dio, rifiutate, per il rispetto dovuto a Dio, da un ente altrettanto non bacchettone
come la radio italiana? E si può continuare, fino al disgusto di chi sa o
preferirebbe non sapere, dimostrando come il Paratore sia moderato allorché
aggiunge: «Fuori da qualsiasi sofisma speculativo e propagandistico, quello
che si può tranquillamente registrare oggi è un imponente fenomeno
storico: il trionfo dello spirito della Riforma».
A buon conto, dico a proposito del Settimo Giorno sconsacrato, tolto al Signore (di
cui porta il Nome) e dato, consacrato al divertimento (onde permettere, come dice
il provvedimento, di «partire, la mattina, per la fine settimana senza l'ansia
del rientro»), il parlamento inglese (anglicano) ha respinto or è poco
la proposta di licitar, la domenica, il gioco del calcio. E quanto al fatto più
grosso della nostra Riforma, «l'abbandono della liturgia tradizionale
e del latino come lingua ufficiale e universale, cioè proprio l'abbandono
del punto capitale di differenziazione e di resistenza rispetto alla (loro)
Riforma», il Paratore sappia, a sua amara consolazione, che il latino va ritornando
in onore e vigore fra i protestanti.
Me lo scrivono da più parti, ultimamente dalla Svezia, ed è un giornale
del Minnesota, il The Wanderer di Saint Paul, che sotto il titolo «Un
vescovo cattolico gode il latino in una chiesa protestante» ci informa di una
onorificenza conferita al vescovo di Pittsburg «durante una cerimonia religiosa
nella imponente cattedrale (protestante) di San Giovanni il Divino, a New York, celebrata
interamente in latino, compresi gli appelli, senza neanche una parola in volgare».
Il vescovo, aggiunge il giornale, monsignor John Wright, non ha potuto né
voluto nascondere la sua commozione per aver risentito lì la lingua della
Chiesa Cattolica... Vien da pensare ai «cagnolini» della donna di Canaan
che mangiano del pane dei figli caduto dalla tavola dei padroni, con la differenza
che qui, invece delle briciole, i padroni buttan via il pane intero, togliendolo
e proibendolo ai figli, che devono, così, per gustarne, elemosinarlo
dai «cagnolini», sotto la tavola.
*
* *
E non è solo il pane verbale, il latino, che si butta sotto la tavola! La
vicinanza del Corpusdomini fa che ricordiamo, per consonanza, le divine parole e
note della sequenza di San Tommaso: «Ecce Panis Angelorum, - factus cibus viatorum:
- vere Paths filiorum, - non mittendus canibus», le quali se pur tradotte caninamente
non suonan meno ammonitrici per ciò che avviene in famiglia nei riguardi del
«Pane dei figli», del concetto e del rispetto di questo Pane, che sembra
perdere ogni giorno più la maiuscola per non rimanere che pane. Abbiamo già
rilevato la riduzione delle maiuscole, dei segni di riverenza e di amore,
per l'Ostia (o l'«ostia», com'essi scrivono) operata dai catari della
«progressivizzazione» (anche questa parola abbiam letto) con la loro
Instructio dell'anno scorso: allo scempio (vorremmo poter dire scempiaggine,
che sarebbe un'attenuante) s'è aggiunto ora quello della «volgarizzazione»
(o involgarimento) del Canone, cui s'addice a maggior ragione ciò che il Paratore
scriveva della messa vernacola in generale, e cioè che «il linguaggio
della sacralità deve necessariamente, per esigenza a un tempo storica ed escatologica»,
esser tale (quale appunto il latino) da «conferire all'atto rituale la sua
soprasensibile suggestione, il suo trascendente valore». E alludendo anche
al «sacrum silentium» prescritto dalla Costituzione liturgica ma proscritto
dai suoi tutori: «E un fatto indiscutibile che oggi la fragorosa cagnara in
cui si è trasformata l'operazione liturgica in chiesa, dove masse d'indotti
leggono insieme ad alta voce, pedissequamente, un libretto che inculca nelle loro
teste solo la superficie, la pellicola esteriore di ciò che l'atto rituale
significa, equivale a ciò che il turismo di massa ha provocato in località
sacre alle più sottili e commosse esperienze spirituali dell'individuo, come
la Verna ed Assisi... Che cosa volete che si possa penetrare della consacrazione
dell'ostia, del concetto della transustanziazione, in mezzo allo straripare delle
formulette in lingua volgare che hanno fatto sparire ogni senso di divino mistero,
che mirano ad assicurare solo una superficiale comprensione, una stracca partecipazione
collettiva al senso esteriore, elementare dell'atto rituale?» La risposta è
logica ed è ormai un fatto: «S'intende che in tale atmosfera ben presto
la fede che l'ostia consacrata dal sacerdote sull'altare si trasformi effettivamente
nella carne e nel sangue di Cristo non potrà allignare in folle cui l'agevole
travestimento dei testi liturgici nel linguaggio quotidiano avrà fatto acquistare
disinvolta confidenza col rito...»
La cosa ha, nel lessico dei riformisti, un suo termine, «ridimensionamento»,
e mica è la radio vaticana (che ha adottato per suo conto o canto il verbo
«calare»): è l'Osservatore Romano che lo dice e se ne compiace
e lo inculca (supplemento del 30 maggio), sovvertendo e invertendo venti secoli d'insegnamento
cattolico, nei riguardi dell'Eucaristia: «Oggi l'adorazione eucaristica, le
benedizioni e tutte le forme di culto sono state ridimensionate... La comunione»,
si scrive, e si spiega, fin qui «era vista come incontro della creatura col
suo creatore, dell'amico con l'amico e si insisteva sulla preparazione, sull'abito
nuziale di cui l'anima doveva essere rivestita per presentarsi degnamente a questa
udienza. Molti non osavano accostarsi - soprattutto se la comunione era fatta saltuariamente
- se non avevano premesso la confessione come bagno necessario ad un avvenimento
così importante». Il che era vero, chi non se ne ricorda? Ma era sbagliato:
sentite: «L'Eucarestia è anzitutto pane e vino», e poichè
«la Messa-comunione ha come effetto di rimettere i peccati», si spiega,
s'insiste a lungo che non ci si deve «necessariamente andare con l'anima interamente
purificata attraverso un altro sacramento» (al che provvedono, per verità,
i nuovi ministri della penitenza sbattendoci in faccia lo sportello se l'ultimo nostro
«bagno» non è vecchio almeno di qualche mese e tra il sudicio
da scrostarci da dosso non c'è, starei per dire, almeno qualche omicidio:
non siamo ancora ai Pecca fortiter ma sullo sdrucciolo); come pure, una volta
trangugiato, in fretta, quel «pane e vino», di non star lì a fare,
come si diceva e faceva prima, il ringraziamento, o almeno di tirar via, anche in
questo, e per chi non mi volesse credere ecco qui le precise parole del D'Angelo,
un prete, non prive di una certa ironia per noi che... che avremmo scritto Pane e
Vino magari così, con la maiuscola: «Tale impostazione spiega un particolare
che ha fatto un po' scandalo: la diminuita importanza del ringraziamento. Dopo la
comunione la Messa volge al termine assai, rapidamente. E altrettanto velocemente
fedeli e sacerdote escono fuori. Il motivo è sempre lì: l'Eucarestia
vista meno come oggetto di culto che come cibo».
E per chi non fosse convinto ecco anche un ghiotto paragone: «Finito il pranzo
diciamo un breve grazie ai Signore e andiamo, lasciando che il cibo faccia il suo
ciclo... Il Signore non ha bisogno di prolungati ringraziamenti: una parola gli basta».
Di che cosa ha bisogno, il Signore? «Ha bisogno delle nostre braccia
e della nostra mente nell'opera della creazione e della redenzione...» E qui
confesso di non farcela, a intendere, sia perchè credevo che la creazione
fosse finita e la redenzione avvenuta, sia perchè non vedo, comunque, come
avrei potuto o potrei dargli, al Signore, una mano o un suggerimento.
Ma il don D'Angelo ne aggiunge, è vero, un altro di questi divini bisogni
in vista dei quali è bene non star lì in chiesa (una volta finito il
pranzo) a perder tempo con l'Anima Christi o l'En ego, o l'Adoro
Te o il Transfige; e senza proprio dir che quel tale aveva ragione e che
quella tale avrebbe potuto spender meglio che in quel profumo quei soldi, dice: «Ha
bisogno di essere amato nei fratelli», vale a dire nel «popolo»,
e tonto io che non vedo l'opposizione: l'opposizione, dico, fra l'uno e l'altro,
fra il Cristo eucaristico e «quel Cristo, promosso dalla maturità dei
nostri tempi ad eroico anche se sfortunato assistente sociale», per cui «la
sola cosa non superflua e non impicciosa del morto mito del primato di Pietro è
la "Pontificia Opera di Assistenza"», come scriverà quel Michele
Sciacca, non senza dedurne, per via di logica, ossia vederne, in facto o
in fieri, il «resto»: «Il resto verrà da sé:
non c'è un Dio da pregare, non una Chiesa da frequentare per il Suo
culto; non una vita contemplativa; non l'anima da salvare; non
una autorità a cui ubbidire; non un credo fissato dalla Chiesa
e dalla tradizione; non una morale che non sia quella sociale...»
È in vista, appunto, di poter disporre di maggior tempo per servire Iddio
nella POA che il don D'Angelo consiglia ai preti di non sciuparne in confessionale,
rallegrandosi, fra l'altro, del fatto che «oggi, qua e là, timidamente,
si comincia a far avvicinare i bambini prima alla comunione e poi alla confessione»,
il che va fatto, aggiunge e spiega, anche se al bambino fosse scappata, come può
succeder, qualche bestemmia: «la messa è sufficiente a rimettere le
piccole colpe del bambino di 8, 9, 10 anni; chi infatti oserebbe dire che una cosa
in sè anche grave, come la bestemmia, in un bambino assuma la gravità
del peccato mortale..?» Senza dirlo, fa capir che lo stesso si potrebbe dire
dei grandi; infatti: «Sedendo in confessionale si avverte la superfluità
di molte, della maggioranza delle confessioni» - e all'Indice (se non lo avessero
abolito!) quei vecchi libri come l'Imitazione di Cristo che ci dicono, o ci
dicevano, Cum quanta reverentia Christus sit suscipiendus, e ci raccontavano,
per nostra edificazione, storie di Santi che si confessavano tutti i giorni, e, pur
amando e per meglio amare Dio nei fratelli, dividevano il giorno fra il ringraziamento
e la preparazione a riceverlo.
Così, con «la diminuita importanza», con la «velocità»
raccomandata a preti e fedeli di «uscire», si spiega l'ablazione dalla
Messa riformata del Placeat, dell'ultimo (sublime!) vangelo, e dai messali
della Gratiarum actio post Missam (come delle preci leoniane) e non dico dell'abluzione
delle dita dopo la Comunione perchè questo, come ci ha istruito il Consilium
ad exsequendam, s'è fatto per «motivo igienico», perchè
«bere l'acqua con cui ci si è lavati le dita, specialmente dopo la distribuzione
della comunione, non è certo un gesto... consigliabile».
Meglio dell'acqua, «finito il pranzo», sicuramente è consigliabile,
ai bar più prossimo, un buon caffè, anche per ripulirsi, per purificarsi
la bocca dei resti di quello, lasciando sul manichin della chicchera o sulla
carta di un'aromatica sigaretta fumata tra sorso e sorso ciò che del «pranzo»
può esser rimasto attaccato alle dita.
Forse, parlando di «confidenza», di perdita di «ogni senso di divino
mistero», Paratore non pensava che si potesse arrivare a questo, e neanche
io io pensavo; ma tu, amico Manzini, mio caro amico Raimondo, come hai potuto arrivare
a questo, dico a lasciar che su quel giornale - il giornale che pubblicò
la Mysterium fidei - si pubblicassero di queste cose?
Forse non è dipeso da te, e io voglio almeno pensare che tu ne abbia sofferto...
tu che pur dovendo servirla ti trovi forse come me spaesato e triste in questa Chiesa
«postconciliare» tutta «pasqua» e niente «parasceve»,
cui sembran per l'appunto confarsi le parole che, agonizzante, papa Giovanni disse
nel suo bergamasco ai fratelli in piedi presso il suo letto: «Tirés
de banda che scondì el Crocefiss»: «Scansatevi, che nascondete
il Crocifisso!»
Nascondere ai cristiani la croce (o presentargliela, come oggi ne vediamo le immagini,
senza il Cristo e i chiodi) sembra sia il grande sforzo, l'innovazione più
autentica degl'«innovatori», e l'immagine del «pranzo» e
la cura dell'«igiene» può servire a comprenderli.
(Giugno 1968)
prossima |