LA TUNICA STRACCIATA
Latino come coriandoli

«Unanimes, uno ore, una voce». E a onorar così Dio, nella maniera più degna, in questa predestinata lingua - una e universale; di ciascuno e di tutti, anche perchè di nessuno in particolare; perenne, sempre verde, come l'olivo, «sempreviva», come la pianta di questo nome - la Chiesa, sua divina Sposa, compose, come si disse, componendo parole e note condegne, la più sublime liturgia, da svolgere in tempi quanto più si potesse tali che n'erompesse dai cuori il grido che fu del salmista: «Come belli, Signore, i tuoi tabernacoli!» E chi v'entrava, forestiero, per guardare e ascoltare, gli accadeva di rimanervi, fratello, per fraternamente adorare.
Non vi è certo ignoto, Eminenza, quanti, in passato, siano venuti alla Chiesa attraverso una chiesa: quanti - per dir con Dante - hanno seguito lo Sposo per amor della Sposa, vista nei suoi riti, nei suoi canti, nella sua pur esteriore bellezza. Nè vi dovrebbe essere ignoto quanti, al contrario, oggi, dopo la vostra Riforma, se ne discostino, se ne allontanino, desolati, facendo proprio il pianto di Geremia: «Come s'è offuscato mai l'oro! Come il bel color s'è cambiato! È questa or dunque la città d'ogni bellezza, gioia di tutta quanta la terra?» Triste interrogativo per il quale io non vi dirò, Eminenza: «Dammi risposta» (come suona nella vostra versione il «responde mihi» di quel Gesù del Venerdi Santo che ha tanta ragion di chiedervi: «Quid feci tibi?») La risposta, infatti, voi ce l'avete già data, telecamera accanto, in quella vostra conferenza-stampa del 4 marzo 1965 nella quale la parola «riforma» (tipicamente protestante) tornò sulle vostre labbra con la frequenza e il piacere della parola «amore» su quelle dei fidanzati: se ho ben contato (ne ho il testo a mano), una quarantina di volte. Permettete che replichi, e, quale siete stato con noi, noi siamo con voi, non senza dirvi che nella vostra durezza a nostro riguardo noi riconosciamo sincero zelo (e vorremmo, in questo, il ricambio), come riconosciamo umiltà, intento di farsi tutto a tutti, piccolo coi piccoli, popolo col popolo (sia pure, a nostro parere, fuori di luogo e maniera), in ciò che ad altri è potuto sembrare addirittura una debolezza: le telecamere, a mo' d'esempio.
Le telecamere, per l'appunto, su cui i vostri preti amano scherzate come se, invece di una inevitabile noia, fossero una vostra passione. Malignano, infatti, quei birichini (l'ho sentita l'altro giorno a Bologna), che, passato da questa vita all'eterna e non contento, come pareva, del Paradiso, non contento, parimente, del Purgatorio, vi si dicesse: «Eminenza, di qua non resta che l'Inferno...» E voi, dopo avere un po' riflettuto: «Ci sono, all'Inferno, le telecamere?» Malignano, ho detto, e maligno io a riferire, ma vi confesso che io stesso non ho pensato troppo bene di voi, dico del vostro gusto, del vostro senso del conveniente, dell'opportuno, imbattendomi più volte in voi, dico nella vostra immagine televisiva, giocondamente impegnato a tirar coriandoli con un vigore che giustifica la vostra permanenza in servizio nonostante la legge dei Settantacinque (Ad multos annos, Eminenza, se ci è permesso il latino): troppo, semmai, se vi è accaduto, come leggo sui giornali, proprio in quest'ultimo carnevale, di perdervi, nella foga, l'anello, a meno che non abbiate voluto applicare il nisi efficiamini al punto di giocar, sulla piazza, a ghinghinello ghinghinello, chi l'ha avuto, il mio anello, senza badare a quel detto che ammonisce di scherzare coi fanti (e sia pur coi Fanti) ma rispettare i santi, le cose sante... come sarebbe ai nostri occhi la dignità episcopale. La quale, sempre ai nostri occhi (e significa che non così può sembrare ad altri), non è parsa meno fuori di posto in quella grande sala di parrucchiere per signora dove pure vi abbiamo visto, sempre in tv, presente e sorridente a una gara di pettinature femminili, nella quale la vostra porpora faceva un innegabile effetto fra tutti quei pèttini e quei capelli in frenetico movimento.
Ai nostri occhi, e sarà magari il ricordo, sarà il confronto che mi accade di fare con un altro arcivescovo, che già fu il mio, il cardinal Dalla Costa (uno che andava verso il popolo, ora la gran parola, ma con tutt'altro stile), non vi taccio però che tali scene m'han disgustato, pur contribuendo a darmi risposta, per immagine, circa l'interrogativo di or ora: dico a capire come abbiate potuto buttare ai porci, con così allegra disinvoltura, le perle comunque messe in vostre mani di un patrimonio di fede, di pietà, di poesia, di bellezza al cui rispetto avrebbe potuto indurvi il rispetto non foss'altro degli altri, di quindici secoli di ammirazione e venerazione universale «Quae ignorant blasphemant: offendono ciò che non intendono»: parlo di gusto - si capisce - e sia detto a vostra scusante, di voi e dei vostri cooperatori nell'opera di picconatura, di distruzione del «vecchio», del «non funzionale», che da oltre un anno fervidamente procede.
La scusante, per noi (e vengo alla vostra conferenza), voi la trovate, sorridendone, in una cosa che abbia mo, lieti di averla, e che voi vi gloriate, almeno in questo, di non avere: il sentimento. «Sono posizioni», voi dite delle nostre, «sentimentali; in fondo in fondo, sono posizioni sentimentali, le quali però cercano ovviamente delle giustificazioni non sentimentali» (rinunzio a contar le volte che aggettivo e sostantivo ritornano nel vostro parlare), e senza dir da rimbecilliti voi le attribuite, prevalentemente, all'età, facendone una debolezza dei sacerdoti che han festeggiato, diciam così, le nozze d'oro: «Anche tra il clero... c'è naturalmente una difficoltà in alcuni settori, specialmente nei sacerdoti di età più avanzata, ad accogliere facilmente questa riforma: rompere un'abitudine che da 50 anni... sussiste quotidianamente»; e all'amabile interruzione del moderatore Di Schiena per dirvi che voi, pur non essendo un galletto di primo canto, eravate un «innovatore», avete risposto che si, voi lo siete: «Io sono innovatore»; che già lo eravate: «lo ero prima, io sentivo queste cose prima, quindi non mi costa farle». Non vi costa, e già, in parte, le facevate, come voi stesso ci avete detto, e abbiamo accennato, parlando della Riforma in quella Sala Borromini che doveva - nello «spirito» anticipatore che vi guidò nel derogare alla legge in atto - vedere e sentir la «messa yè-yè».
Non vi costa, e vi crediamo: voi siete infatti coerente, in questo, voi che non siete un sentimentale. Che dei sacerdoti, tedeschi, siano morti, come sapete, di crepacuore alla imposizione di lasciar per sempre, bruscamente, brutalmente, irragionevolmente, una Messa cui erano oltre a tutto legati i più dolci loro ricordi; che dei sacerdoti italiani, come io so, si siano sentiti il nodo alla gola e le lacrime fra le ciglia, quella mattina del 7 marzo, nel pronunziar le prime parole di un rito, il vostro, che pervertiva, ai piedi di un altare invertito, una tradizione da loro e da tutti amata come l'antica e mai vecchia, sempre buona «fontana del villaggio» (Giovanni XXIII): tutto questo è sentimento, forse sentimentalismo, per voi, e voi non avete questo complesso. Non lo avete mai avuto, e si deve, si può credere che neanche la vostra prima Messa (quel lontano 1914) vi commova, nel ricordo: che già quel latino vi desse noia: che, non convinto, chinaste di malavoglia la testa a tutte quelle riverenze cui le rubriche v'invitavano (e che ora avete sbandito, come non convenienti, forse troppo servili, sia pure nei riguardi di Lui, al «presidente» di un'«assemblea» democratica): che il ginocchio vi dolesse piegandosi, nel mezzo del Credo, a quell'«incarnatus est» che in noi sentimentali induceva pur sentimenti di meditazione e di adorazione: che fosse per i vostri orecchi un fastidio quel campanello che pretendeva, sonando al Sanctus, di rendere più festosa l'acclamazione, e a cui, nelle nostre campagne, si univano le campane continuando a sonare fino a ch'Egli non era venuto, non era sceso sull'Altare, cosi che tutti, anche fuori, nelle vie o nelle case, si unissero, sentendo, nell'osannare e adorare... Ah quel latino!



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