LA TUNICA STRACCIATA
La fede del carbonaio

Non si converte, si diceva dunque, o ci si perverte; e tollerate, Eminenza, ch'io ritorni a dianzi e riprenda trascrivendo come se fosse mia l'opinione di un già citato teologo che se riguarda direttamente il «dialogo» coi riformati luterani e loro progenie vale anche per la vostra Riforma... È la conclusione di uno studio sui tentativi già esperiti e tutti falliti di ricuperar col colloquio da pari a pari i «separati», dalla disputa fra Giovanni Eck e Andrea Carlostadio, nel 1519, agl'«incontri» di Malines dell'altro dopoguerra, e dice: «Questi precedenti storici non permettono di abbandonarsi a rosee vedute in tema di riunione delle Chiese sulla pietra posta da Cristo... Attendersi che i capi eretici scendano dalle loro posizioni secolari mi è sempre parsa un'utopia... Bisogna aspettare con pazienza, lunga quanto i secoli, le conversioni collettive, non attendendole dalle dispute dei teologi, ma impetrandole, con la fede del carbonaio e le lacrime di santa Monica, da Colui che tiene in mano i cuori degli uomini».

La fede del carbonaio e le lacrime di santa Monica. È quanto dir l'umile preghiera, la cosa fondamentale, essenziale - Nisi Dominus... - perchè non invano l'uomo lavori al suo edifizio, dico alla sua propria conversione (senza la quale sarebbe stolido pretender quella degli altri) e non mi sembra che su questo si basi la «formazione spirituale del popolo» indetta dalla vostra Riforma. Ho detto l'«umile preghiera» e calco sull'aggettivo perchè sul sostantivo sarebbe improntitudine da parte mia dubitare: la preghiera resta di certo anche per voi, l'«innovatore», la base della nostra «formazione spirituale»; è un caso, più che una dimenticanza, che la santa parola non sia uscita dalle vostre labbra una sola volta fra le tante dette e ridette in quella lunga presentazione della vostra Riforma, e baie sono sicuramente per voi ciò che un dei vostri mi diceva in proposito ossia che in chiesa, alla Messa, dopo il 7 marzo non si va più per pregare, si «per fare atto comunitario» (il che se fosse, dico io, tanto varrebbe andare alla bettola, dove non manca il pane e il vino, insieme alle musiche di Sanremo, o alla casa del popolo, dove non manca neppure... la liturgia della parola). Baie! per voi la chiesa è, salvo il latino, «domus orationis», casa della preghiera, e preghiera, la preghiera delle preghiere, è la Messa: voi credete, per dirla con Michelangelo, «agli orazioni», solo che, a differenza di lui e del carbonaio, e a somiglianza delle vostre chiese, voi esigete per noi che le orazioni sian razionali: brutte, fredde, meccaniche - come tutte quelle apparecchiature luminose e sonore, loro ausiliarie, che intralciano come cabine elettriche lo spazio sacro - ma razionali: voi mettete, al posto dell'umiltà, l'intelletto: «se non capisco», voi ci fate dire, «non prego!» e non è certo il miglior modo di avvicinarci a Chi disse: «Ti ringrazio, Padre, perchè hai nascosto queste cose ai sapienti, agl'intellettuali, e le hai rivelate ai fanciulli».

Non cosi ci avevano per certo insegnato i santi, sulla scorta dei libri sacri e col loro esempio. «Quondam non cognovi litteraturam introibo in potentias Domini: in quanto non so di lettere...» È il salmista che lo dice, e sì che di lettere avrebbe potuto saperne; come avrebbe potuto santa Teresa, la grande, che preferì, per sua devozione, per suo profitto spirituale, restare ignorante. Quanto più, essa scrive, certe cose mi rimanevano oscure, «tanto più le credevo e mi facevano devozione: ... más firme la tenía, y me dava devoción grande... Neanche lo desideravo, d'intenderle, e non interrogavo nessuno: mi bastava pensare che eran cose di Dio. E così, lungi dal meravigliarmene, mi erano un motivo di più per lodarlo. Più le sue cose sono di difficile intelligenza, più m'ispirano devozione: ... antes me bacen devoción las cosas dificultosas, y mientra más, más».

È detto, infatti, che «Dio resiste ai superbi, mentre dà la sua grazia agli umili», e quanti di questi umili han servito a Dio per far le sue cose grandi, a cominciar dall'«umile ancella» sua madre e dall'artigiano suo «padre» che non capirono, «non intellexerunt», neanche loro, «che cosa Egli avesse detto loro» nel Tempio! Bernardetta Soubirous, si sa bene, non era, in parrocchia, un primo premio neanche in fatto di catechismo, ma la Madonna apparve a lei, non alle suore sue maestre che le davano di «zuccona»; e quanti «intellettuali» riportò a Dio, senza appellarsi all'intelletto, quel Curato d'Ars che per scarsezza d'ingegno, per essere, anche lui, uno «zuccone», aveva ottenuto a stento dai suoi superiori d'esser fatto prete! «Zuccone», proprio cosi, era anche detto, in una lettera del rettore al parroco di San Gregorio, nel Veneto, un giovane seminarista da lui in vacanza, ch'egli doveva perciò convincere a non rientrare in seminario: e ci rientrò e fu a suo tempo il sacerdote Angelo Roncalli, a suo tempo - e pur coi suoi settantotto! - papa Giovanni XXIII... Caro papa Giovanni, che al Generale dei Gesuiti, ricordando insieme un umile fraticello laico dell'Ordine, portinaio del convento, il cui solo libro era la corona del rosario, diceva con quel suo arguto sorriso bonario: «Eh? Quando saremo anche noi lassù, tanto si dovrà alzare il capo, per poterlo vedere, che ci cascherà lo zuccotto!» E qui, a proposito di rosario, mi torna in mente, comecchè c'entri, un dei vostri, che dirigendo o comandando («In piedi!» «In ginocchio!» «Seduti!») una «messa comunitaria», s'interrompeva per intimare a una signora di rimetter via «quella cosa», la corona appunto del rosario che aveva preso fra mano, peggio che se l'avesse vista cavare dalla «trousse» il rossetto e darselo.

«Se non capisco non prego». È un poco l'equivalente del Nisi videro di Tommaso - incredulo, lui, sol per eccesso d'amore! - ed equivalente potrebb'essere la risposta: «Beati coloro che non capirono, non capiscono, e pregarono e pregheranno!» Nei nostri cimiteri giacquero, attraverso i secoli, milioni e milioni di cristiani con le mani legate insieme da quella corona ch'era stata in vita l'unico loro libro: quella corona, quella «catena» a cui i risuscitati si attaccano, nel Giudizio di Michelangelo, per esser tirati in cielo, e faccia Dio, se il nostro non è che compatibile sentimentale rimpianto, che maggior numero ce ne tragga il vostro libretto, che maggior lode gli venga da questi vostri «nuovi cristiani» venuti su senza «quella cosa», nelle «nuove chiese» al neon, elettrificate, «senza diaframmi» neppur d'immagini sacre... Per intanto, noi non metteremo via «quella cosa», lieti e piuttosto riconoscenti della nostra ignoranza, attaccandoci, per ogni cosa, a ciò che il dotto dei dotti, l'autor della Summa, scrisse in questa del canto sacro: «... etsi aliquando non intelligant quae cantantur, intelligunt tamen propter quid cantentur, scilicet ad laudem Dei, et hoc sufficit ad devotionem excitandam: anche se non capiscono tutto ciò che viene cantato, capiscono perchè vien cantato, vale a dire a lode di Dio; e questo basta a eccitare la devozione».



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