«Imputato, Eccellentissima
Eminenza Cardinale Lercaro, alzatevi! Il Sacro Supremo Tribunale della Chiesa di
Pietro ha preso le sue decisioni nei vostri confronti: Vi riconosce colpevole del
reato di attentato alla sicurezza e al prestigio della Chiesa Cattolica. E vi condanna
alla deposizione della tunica...»
Così, sotto un grosso titolo, Il Lutero di San Petronio, prende il
via su un foglio di Roma un articolo che mi riguarda; e confesso che, leggendo queste
prime parole e credendo a un qualche mio ignoto amico, compagno di passione e di
lotta per il ritorno della Chiesa a Roma, alla sua lingua, al suo rito, m'è
venuto il sudore.
Dico per la grossolanità, la goffaggine di un tale esordio, che -disonorerebbe
un usciere, non dico un presidente di tribunale, pur non potendo, quanto allo stile,
dispiacere agli operatori della Riforma di cui il cardinale Lercaro è il legittimo
Praeses... Ero fortunatamente in errore, e il seguito dell'articolo valse
subito a rasserenarmi: «Fantasie, si intende» (il verdetto su esteso)
« ma qualcuno vorrebbe che si tramutassero in concreta realtà: questo
qualcuno è l'illustre scrittore cattolico Tito Casini». Non un amico,
dunque, Dio sia lodato, non un commilitante, ma un avversario, al quale potevo dire
come Andrea Hofer, l'eroe tirolese, ai francesi che lo fucilavano: «Ah, come
tirate male!»
Processo, dunque, ma nel quale l'imputato son io, ed ecco, in condegno stile, l'imputazione:
«Che cosa ha fatto questo Tito Casini? Ha scritto un libro, La Tunica stracciata,
in forma di lettera aperta all'Eccellentissimo monsignor Vescovo presidente della
Commissione Liturgica, cioè al cardinale Lercaro Arcivescovo di Bologna, reo
di avere con troppa foga insistito per l'abolizione del latino nell'uso liturgico
preferendogli il volgare». E rivolgendosi, con ironica cortesia, all'imputato:
«Ci permetta, illustre Casini, dirle che se ritiene che la sacralità
del culto religioso cattolico stia essenzialmente nel fatto dell'uso del latino e
che il volgare-italiano non possa far comunicare l'individuo con Dio, lei di religiosità
non ne ha mai capito niente e continua a rimanere con caparbietà in questa
sua ignoranza. Ma siamo seri, illustre scrittore, forse che Dio non capisca l'italiano,
oppure sia raccapricciato per l'abolizione del latino!»
Raccapricciato da questo genere d'italiano - che il buon Dio sicuramente capisce,
avvezzo com'è a quell'altro, succeduto al latino -, può darsi che,
qui arrivato, qualcun si chieda o mi chieda il perchè, di tanti che sui giornali
- dalla Croix all'Unità, e non per contrapporre la croce al
diavolo, il fratello separato degli angeli, il che sarebbe contro il «dialogo»
in corso - si son stracciati la tunica per sdegno contro la mia Tunica stracciata,
abbia preso, per iniziare la mia difesa, proprio questo Ivan De Musso, di un giornale
così Carneade quale questo Corriere di Roma (30 aprile 1967). «Domanda
legittima», risponderò col medesimo, «che ci siamo posti anche
noi», incerti se conservarlo, questo fra i tanti, o metterlo nel mucchio della
carta per involtare che passo regolarmente al mio bottegaio, al prezzo convenuto
che non bestemmi più contro i «preti d'oggi» che abolendo il «venerdi»
gli hanno fatto andare a male una partita di baccalà, e mantenga il lumino
a olio davanti al quadro della Madonna, olio che al dir di lui, secondo quei «preti
d'oggi», sarebbe meglio adoprare per condir l'insalata... L'ho ripreso e me
ne servo, come sto facendo, perché ci trovo, condensate, quasi tutte le accuse
che mi si fanno: le accuse per cui a qualcuno, chissà, a qualcuno forse rincresce
che al par del latino, del venerdì» e di tante altre anticaglie si sia
abolito anche l'Indice e si cerca di rimediarvi, segretamente, diffidando le librerie
«cattoliche» - libere di tener libri sul sesso tali da nauseare un marchese
De Sade e, in materia di eresie, far concorrenza ai protestanti - dal tenere un libro,
come La Tunica, che ha il solo o il principal torto di appellarsi, in fatto
di liturgia, alla Chiesa, ai Papi, al Concilio.
L'Indice, dico, e per poco non dico l'Inquisizione, come insinua argutamente
un altro giornale - Realtà Politica, in un corsivo dal titolo Un
rogo per Casini - anch'esso meravigliato di tanto rigore, in confronto di tanta
licenza e licenziosità lasciata a quegli altri. «Il linciaggio morale
dello scrittore Tito Casini, reo di avere espresso la sua opinione di cattolico sulla
riforma liturgica, continua. Il furibondo crucifige dei progressisti di tutte
le risme e di tutti i calibri è al colmo. Costoro, i progressisti, dopo aver
reclamato libertà, democrazia, possibilità e diritto di parlare su
tutto e su tutti, vogliono imporre il silenzio a chi non la pensa come loro. Tito
Casini è uno dei reprobi, cui si vorrebbe impedire di parlare. Pensiamo
all'Inquisizione e al rogo. Se fossero tempi di condanne a morte nessuno potrebbe
evitargliela... Dicono che questa è l'epoca dell'amore, della carità.
Naturalmente per gli altri: per gli atei, per i comunisti, per i dialoganti, per
gli apostati. Per i cattolici fedeli alla tradizione, invece, forca e fucilazione.
Nel nome del Signore!»
Nel nome del Signore! e concedete che mi ripaghi del brivido baloccandomi ancora
un poco, prima di affrontar la difesa, con questo così poco romano Corriere
di Roma, che critica la mia «acerba critica», nei confronti di una persona
della Chiesa, in questi così rispettosi termini nei confronti d'altre persone
e del Capo medesimo della Chiesa: «Il suo libro» (continua, sempre rivolto
a me, quest'Ivan De Musso) «definito da Papa Paolo VI ingiusto e irriverente»
(ed è vero) «per la polemica contro il cardinale Lercaro, ha avuto un
solo triste merito: quello di mettere a nudo il dramma della Chiesa o meglio della
Santa Sede. Il libro, che rispecchia lo stile e il carattere propri della gente toscana
arguta e criticona, ma poco riflessiva, anzi essenzialmente impulsiva, e del quale
invano l'arcivescovo di Firenze, cardinale Florit, ha cercato di fermare la pubblicazione»
(ed è falso) «porta la prefazione del cardinale Bacci» (ed è
vero). «Ecco scoperto il dramma della Santa Sede, che dopo alcuni anni, si
può dire dopo la morte di Pio XII, viene rosa da una lotta intestina fra due
correnti, una progressista capitanata da Lercaro e l'altra conservatrice reazionaria
al comando della quale sta (guarda un po' chi si rivede) il cardinale Ottaviani,
cioè il Bonifacio VIII del XX secolo, come lo chiamano i suoi commilitoni.
In mezzo a queste due correnti Paolo VI, che non è nè potrebbe essere
per la sua funzione di frizione fra le due schiere, nè... ne...» (tralascio,
per rispetto al Papa, due termini) «anche se intimamente egli è un conservatore»
(ed è falso) «costretto a seguire il cammino intrapreso da Giovanni
XXIII... Questo dissidio interno è deleterio per la Chiesa» (ed è
vero). «La Santa Sede, ed è quello che è risultato dal Concilio,
deve andare di pari passo con i tempi, deve progredire nel suo fine di unione universale...
Questa unione non si potrà ottenere aderendo alle tesi dell'ala conservatrice
del cardinale Ottaviani, ne tanto meno a quelle di Tito Casini» (ed è
curioso, perchè il qui nominato sostiene principalmente il latino, in armonia
con tutti i Papi e con papa Giovanni in particolare, proprio in quanto «perspicuum
venustumque unitatis signum», in quanto «vinculum peridoneum di unità
fra tutti i cristiani, e la «tunica», al dire di lui, è «stracciata»,
o in via d'esserlo, proprio perchè è stracciata quest'unità
della lingua).
Nè si creda che il mio accusatore romano ce l'abbia con la lingua di
Roma come Renzo col «latinorum» di don Abbondio. Disprezzerebbe, se così
fosse, il suo eminente difeso, del quale ne fa invece una dote, accostandolo in questo
al suo presunto contrario, sia pure per contrapporli con un «ma» che
ristabilisce distanze e meriti: «Il cardinale Bacci per esempio è un
latinista e vive immerso in questo studio. Anche il cardinale Lercaro è un
illustre cultore di questa magnifica lingua» (lo voglio credere, e ne godo)
«ma ha saputo rinunciarvi per il bene dei fedeli» (salva l'intenzione,
ne dubito). Se non che, di lì a poche righe, questa «magnifica lingua»
mi si trasforma in un segno tutt'altro che d'intelligenza e di religiosità
in chi la coltiva, e meno male per il cardinale Lercaro che ha quel «ma»
a suo vantaggio! «Si provi a chiedere» (mi chiede infatti il mio accusatore)
«a quelle persone delle quali ha sondato l'opinione perchè a loro piace
il latino: le risponderanno che il latino è più grandioso, è
più bello. Giustificazione alquanto cretina, propria di animi poveri di spirito
e soprattutto poveri di vera fede cristiana». Dopo di che, dico dopo questo
nuovo saggio di rispetto e di carità progressista, mi chiedo a chi spetti
il miramur tra me e il mio accusatore; il quale esce, di seguito, in questa
esclamazione: «Ci meravigliamo di lei, illustre scrittore toscano!» E
meno male per i miei occhi, dico per la mia modestia, messa in pericolo da tutto
questo lustrare, che la cortesia della forma non vela la severità degli avvertimenti:
«Attenzione, signor Tito Casini, potrebbe essere un'eresia!»
Dopo questa grossa parola, rinforzata dall'esclaniativo, io farei, con questo mio
Corriere di Roma, come il Manzoni dopo la parola «accidenti» del suo
anonimo milanese, se certi amici romani non mi avessero fatto avere altri numeri
dello stesso giornale dove si sostiene, in tutt'altro stile, esattamente il contrario,
ne soltanto in fatto di parlare ma di tutto ciò che il mio accusatore chiama
e commenda «andare di pari passo con i tempi». Quanto a quello, il latino,
«nota caratteristica di unità, punto di raccordo per tutti i cristiani
del globo», che «ha risuonato per secoli nelle nostre chiese»,
vedere in esso «una barriera che abbia ostruito la marcia della Chiesa»
vi è considerato «una ingenuità giustificata soltanto dalla totale
ignoranza». « L'eliminazione del "latinorum"» (vi è
pur detto) «e l'adozione della lingua nazionale non hanno estirpato la mala
erba della indifferenza religiosa». E si aggiunge: «Però anche
l'italiano se la vede brutta. Col dialetto, parlato dalla massa del popolo italiano,
possono nascere dei guai. I vernacolisti, presto o tardi, reclameranno anche loro
la Messa in vernacolo...» E la sferza dell'ironia, che il De Musso adopra contro
di me, viene adoprata contro i De Musso (i «latinofobi») proprio come
se non si trattasse dello stesso giornale.
La qual cosa mi rammenta un altro giornale, anch'esso romano, del tempo della mia
gioventù, intitolato Perseveranza, che per la sua perseveranza nel voltar
giacca e livrea, nell'adattarsi a tutto e a tutti, la sua cura di «andare a
pari passo con i tempi», ossia con chi governava, veniva chiamato con l'anagramma
di Serve e pranza; e non dirò che questo sia il caso, ma certo è che
con la Riforma, servendo, parecchi pranzano.