DICEBAMUS HERI
la "Tunica stracciata" alla sbarra

di Tito Casini


Antesignani

Resta che con tante e tali accuse o suspicioni a mio carico io ho, prima che il diritto, il dovere - come cristiano - di difendermi, ossia di spiegarmi.
Penso all'ultima, di quelle che ho riferito: «potrebbe essere un'eresia!» e se non ho più da temere il rogo, quaggiù, se non rabbrividisco di umano orrore passando, nella mia città, per piazza della Signoria, rasente al tondo che ricorda il Savonarola (e a ricordarmelo c'è bene un giornalista, francese, Bernard Noél, sul Figaro: «Títo Casini, qui veut jouer les Savonarole...»), di un altro tondo e di un altro rogo mi preoccupo, assai più e con ragione, io che credo ancora e con ferma fede nel terzo dei novissimi e ho ben presente il Vae! del Vangelo con quella macina che meglio sarebbe legarsi al collo eccetera eccetera, pur considerando anche il rimanente: Nocesse est ut veniant scandala... Mossi da questo stesso pensiero, Giovanni Papini e Domenico Giuliotti - i due grandi amici che io mi compiaccio e i miei accusatori m'imputano di avere avuto per tali - scrivevano, rispondendo al bu-bu sollevato dal più «scandaloso» dei loro libri non «edificanti» (e scusatemi se la citazione sarà un po' lunga: i nostri casi si somigliano, l'opuscolo è, d'altra parte, introvabile, e chi ha buon gusto avrà anzi da ringraziarmi di averglielo almeno fatto assaggiare dotandone la mia povera prosa):
«Sappiamo che a parecchia gente il nostro Omo Salvatico non piace. Che alla gente dei salotti e delle redazioni non dovesse piacere la prosa villereccia degli uomini dei boschi si sapeva anche prima di stamparlo... Ma ci dicono che fra gli scontenti ci siano alcuni cattolici - dei cattolici " moderni ed aperti " - e allora la cosa diventa più grave... Dinanzi ai nostri fratelli in Cristo abbiamo il dovere di esaminare severamente l'opera nostra per vedere se abbiamo sbagliato o se sbagliano loro. Non pretendiamo di poter sfuggire all'errore... Ci siamo dichiarati pronti ad accettare le correzioni consigliate da coloro che sono al disopra di noi. Uno di questi superiori - il più alto fra quanti ne abbiamo potuti avvicinare in questi giorni - non ha affatto disapprovato il nostro volume ed anzi ci ha confortato con parole che non possiamo e non dobbiamo ripetere». È, anche questo, il mio caso, e se potessi parlare, se potessi dire quali e quanti «superiori», in violaceo e in porpora, m'hanno approvato e incuorato - senza pur chiedermi il segreto -, il mio accusatore di dianzi, che m'invitava, e con ragione, a far «tanto di cappello di fronte a sua Eminenza Lercaro», ne avrebbe, a sua volta, da fare a tanti da rischiare un raffreddore o un'insolazione. Seguitiamo: «Ma queti non potremo essere finché non siano persuasi tutti, finché vi sia un cattolico - intendiamo un vero cattolico e veramente in buona fede - il quale sia scandalizzato dal nostro libro...»
Per chi sia il libro, in particolare, eccolo detto, e si direbbe, se l'opuscolo non fosse uscito nel 1923, che sia de' nostri e pe' nostri giorni, come se nelle prime linee di allora essi avessero denunziato e attaccato la febbre d'oggi: questa «fièvre-moderniste» (come la chiama il Maritain) «auprès de laquelle le modernisme du temps de Pie X n'était qu'un modeste rhume des foíns»: « Il libro è destinato... agli eretici inconsapevoli che accanto a Cristo e più di Cristo adorano gl'idoli (l'Oro, la Scienza, la Potenza); ai negatori i quali immaginano che la sapienza "moderna" ha superato per sempre la Rivelazione antica. Questi combattiamo e per questi scriviamo... il nostro è un libro contro il Mondo - inteso nel senso dell'Evangelo - e specialmente contro il mondo moderno». E ripetono e incalzano, quasi presagi di questi giorni nei quali in nome del «dialogo» si dovevano veder la Chiesa e l'eresia impegnarsi «alla ricerca della verità su piede d'uguaglianza»; e «le nostre chiese, le nostre grandi chiese, tutte le nostre chiese», dichiarate «non funzionali» e perciò da rifarsi; e la lingua e il canto e i riti vigenti sotto quelle volte da sempre, diventare da prescritti proscritti; ripetono e incalzano, i miei due amici cui è giovato per la loro pace morire prima d'ora che alla morte si nega la sublime dolcezza di quelle sublimanti esequie gregoriane e latine: Noi siamo «contro... quel Mondo moderno che sta distruggendo e calpestando gli ultimi vestigi dei valori religiosi, morali ed estetici della Cristianità... Chi ama Cristo non può amare i nemci, gl'insultatori della Chiesa. Chi ama il Mondo, o lo tollera, o l'ammira o l'accarezza, non è vero cristiano anche se crede d'esserlo; perchè non v'è compromesso possibile» (oggi avrebbero detto «dialogo») «fra lo spirito di Cristo e lo spirito del Mondo... Chi crede di poterlo fare ha certo due facce ma non ha neppure un'anima... Non sappiamo, francamente, cosa voglia dire, per un cattolico vero, esser "moderno". Il cattolicismo non vive nella moda dei tempi ma nella sicurezza dell'eternità». Invece di «moderno» oggi è di moda dire «aggiornato», ma è lo stesso vecchiume, lo stesso «cattolicismo fatto di concessioni e di compromessi, di tiepidezze e di viltà», di cui essi ricordano la prima infatuazione sotto quella prima denominazione: «Ci furono, anni fa, dei cattolici "moderni" anzi "modernissimi", tanto "moderni" che coll'aggiunta di sole tre lettere dell'alfabeto e di una dozzina di eresie diventarono issofatto qualcosa di ultramoderno e si chiamarono Modernisti...» E i casi sono talmente simili, o meglio la febbre è salita a tanto che io posso, e a maggior ragione, far mio il loro ergo: «Nessuna meraviglia, dunque, se i cattolici moderni, modernizzanti o modernisti, trovano forte sapor d'agrume nel nostro libro... quei cattolici così "aperti" che a forza d'apertura non si accorgono di aprir la porta ai loro nemici». Qualche cosa di simile a ciò che san Pio X, il papa della Pascendi, rispondeva a padre Semeria che invece di aprire gli parlava di allargare: «allargare le porte della Chiesa» (che sarebbe stato l'intento dei modernisti, e lo riferiva tempo addietro sull'Osservatore Romano il nostro Casnati): «Il vostro è un cosiffatto allargare che chi c'è ne esce e chi non c'è non c'entra», e l'Olanda è là che c'insegna.
Chi c'è ne esce, o si ribella, e penso, in questo momento, leggendo il giornale d'oggi (Corriere della Sera, 8 luglio), giusto all'Olanda, il paese dove la Riforma, dove la neo-liturgia ha avuto come ognun sa nei pastori i più ferventi attori e attivisti: penso a questi «sedicimila giovani cattolici» che si sono apertamente schierati contro l'enciclica del Papa sul celibato ecclesiastico, dichiarando insieme di voler respinger «la lingua in cui il documento pontificio è redatto»; e il giornale aggiunge che anche non pochi seminaristi si sono pronunziati allo stesso modo in una lettera «oltremodo sarcastica nei confronti di Paolo VI»: da cui deducesi che disprezzo per il latino, per il celibato e per il Papa (almeno là, fra quei cattolici all'avanguardia del riformismo liturgico) son polloni della stessa radice, non occorre dir di che pianta.
Chi non c'è non c'entra, e valgano a far meditare gli antilatinisti, riformatori e aggiornatori in buona fede, questi brani di una lettera diretta a un periodico musicale (Cappella Sistina, gennaio-marzo 1967) da uno che nella Chiesa aveva già un piede e stava per metter l'altro: il professor Cristopher Mathews, di Londra, che già aveva cercato Dio «attraverso i testi dell'Islam, di Budda, dell'Induismo», in ultimo «attraverso la Bibbia», fin quando, dice, «un giorno, non molto tempo fa, andai a Messa: la vecchia Messa latina. Conosco il latino abbastanza per capirne qualcosa, ma non fu il significato letterale delle parole che mi impressionò. C'era nei suoni, nei ritmi, nei canti una relazione di chiave e di tono che mi avvinse: il mistero della Messa ci giunge attraverso tali elementi, quasi senza parole. Le parole sono quasi un pretesto per farci giungere all'adorazione. Iddio parla tra le parole, non attraverso le parole. Sarei certamente diventato cattolico, un giorno, per questo. Come avrei potuto negare il mio aiuto ad una Chiesa che era per tanti il solo mezzo per conoscere ciò che Dio, nella Sua bontà, ha voluto donarmi al di fuori di essa: quel continuo senso della Sua pienezza e della Sua gloria? Mi sarei sottomesso al suo giogo per salvare l'anima mia e per portare gli uomini più vicini a Dio, più vicini al sacro mistero. Ora la vecchia liturgia latina serviva a questo... Ma oggi nella Chiesa non solo c'è chi sembra rinnegare tutto ciò, distruggendo - nella maniera netta e precisa con cui la ghigliottina decapita un uomo - il sacro ed occulto significato delle Messe, ma chi appare propenso a distruggere tutte le più antiche forme di culto... E ci si vanta di questa opera in nome della santità e dell'uomo comune! Quale santità può avere una liturgia senza mistero? In quella Chiesa che aveva il potere di trascinarmi sulla via cristiana verso Dio, e fare un cattolico di un uomo che vi s'era ribellato per orgoglio, si sta ora distruggendo tutto quello che mi attirava a lei, e non si sta creando nulla al posto di quello che si distrugge. Nulla che porti l'uomo a Dio, nulla che lo trascini più vicino a Dio. Nulla!» E amaramente conclude: «Benedetto son io, che ora so che devo, come un tempo avevo deciso, seguire Dio solo per la mia strada...»

In un'altra rivista, La Penna, la cui piccolezza («Per Bergamo e per i Bergamaschi») ricorda le piccole botti del proverbio, un prete scrive che «nella sua parrocchia il nuovo corso liturgico, se ha guadagnato sì e no un tre-quattro per cento alla Chiesa fra quelli che prima non ci andavano o ci andavano ben poco, ne ha tuttavia persi dal dieci al quindici per cento di quelli che prima vi erano assidui, ai quali questa Messa squallida, senza più gregoriano nè pulpito nè incenso, non pare più nemmeno Messa», e un altro dice: «un suo parrocchiano, un ex-valdese convertito, non gli va più in chiesa perché gli pare ormai diventata una sala da culto, come quella dove andava da protestante, mentre lui alla Chiesa cattolica era stato attratto una domenica in cui, trovandosi all'estero, era entrato in un tempio dove si cantava la Messa degli Angeli in latino. Quella lingua universale, uguale al suo paese come in qualunque punto della terra, e quel gregoriano, quel prefazio, quel Credo... lo avevano travolto e conquistato...»
Quanti di questi travolgimenti, quante di queste conquiste dovute alla sua «lingua universale», al suo gregoriano, ai suoi incensi, al suo - diciamolo con la loro parola - «trionfalismo», conta la storia della Chiesa senza contare nessuna perdita per questo? «Claudel», ricorda il cardinal Siri, «fu convertito dal canto del Magnificat sentito la notte di Natale in Notre Dame di Parigi»: ...fecit potentiam in brachio suo: dispersit superbos mente cordis sui. Deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles... e ci chiediamo quale travolgimento, verso la porta uscita, non avrebbero prodotto in lui quegli entiti nella versione e nella declamazione di San Petronio di Bologna: «Egli opera potenza col suo braccio, disperde i superbi nell'intento del loro cuori; abbatte i potenti dai troni e innalza i miseri; gli affamati li riempie di beni, e i ricchi li svuota» (per cui potranno chiamarsi ricchi svuotati quelli che un giorno chiamavamo ricchi sfondati).
Sappiamo che quegli stessi nostri due amici entrarono, traendo tanti altri, nella Chiesa attraverso il portale della bellezza, della sua liturgia, e se li abbiamo or ora detti fortunati perché poterono uscirne, all'invito di quel Proficiscere, in quella scorta del Subvenite, al canto di quella promessa Ego sum, sull'ali di quell'In Paradisum, ora ci viene di rimpiangerli... non fosse che per una nuova edizione, aggiornata, di quel loro famoso-famigerato Omo Salvatico, della cui difesa ci siam serviti qui per la nostra, e ne citiamo, per nostro uso, ancora quelle poche parole: «Quelli che non s'infiammano d'ira non son capaci d'infiammarsi d'amore; sono gli eterni tiepidi che la bocca d'Iddio, com'è scritto nell'Apocalisse, vomiterà »


precedente

indice de
«Dicebamus heri»

home

prossima