DICEBAMUS HERI
la "Tunica stracciata" alla sbarra

di Tito Casini


Il Rosmini

Il Rosmini, l'autore delle Cinque Piaghe, che si è tirato in campo contro di noi come un precursore, un cavaliere del volgare contro il latino, in realtà non si è mai neppur vagamente sognato (e come poteva, un amico del Manzoni... di quel tal Sandro che fa dir da un popolo «latino sacrosanto come quel della Messa?») di fare una cotal pensata, anatemizzata poc'anzi dall'Autorità della Chiesa e rifiutata dallo stesso Ricci suo ideatore... Lo riconosce, a denti stretti e con stizza, il mio caro padre Fabbretti, uno dei più prurientes auribus in questi tempi di tanto prurito per il nuovo, dicendo che in questo il Roveretano è «figlio del suo secolo»; lo riconosce, non negando ossia sorvolando, quasi compatendo, «era figlio del suo tempo», lo stesso padre Balducci, per il quale, come ognun sa, parlare di prurito è eufemistico.
Con buona pace di tutti quelli che, come il Sandro Maggiolini dell'Italia (16 aprile), il primo che mi viene qui a mano, mi baiano o abbaiano addosso perchè ho parlato del latino come di lingua «predestinata» (la Zarri ci si fa buon sangue, dal ridere, in Politica del 15 giugno, facendomi attribuir la vittoria della Iuventus al suo nome latino e aggiungendo: «questo nostro apologeta che scrive lingua predestinata... in tutta serietà», ignara, la meschinella, al pari di tutti gli altri, che così, esattamente, l'ha chiamata il «suo», il «loro» papa Giovanni), il Rosmini, intanto, proprio così dice: dice che, contro la babele linguistica, «contro questo impedimento ad una pronta comunicazione [la varietà delle lingue antiche] la Providenza ebbe apparecchiato l'impero romano, che formando di innumerevoli nazioni una sola comunanza, aveva portata la lingua latina quasi fino alle estremità della terra; e i popoli chiamati al Vangelo si trovarono possedere una loquela comune, per la quale intendevano quelle parole, che accompagnano i sacramenti e i riti, gli spiegano e ancora più gl'informano...» Così - come il «loro» papa Giovanni - chiama il latino, e come il «loro» papa Giovanni lamenta che la barbarie dei tempi, col difetto dell'istruzione, rompesse questa familiarità linguistica dei cristiani con la Chiesa e fra loro: cosa ch'egli non cessa di chiamare «calamità» e «piaga» (la prima delle «cinque»), «Queste due calamità, l'istruzione vitale diminuita e la lingua latina, cessata, piombarono sul popolo cristiano contemporaneamente, e per la stessa cagione... Le due calamità, dell'ignoranza e della perdita della lingua della Chiesa, che si rovesciarono in quelle circostanze addosso ai fedeli... Per queste due calamità Iddio permise che la Chiesa sua fosse vulnerata di sì larga piaga...» Vulnerata ma non insanabilmente, ed ecco la medicina: istruzione; ed ecco il medico: il clero (precisamente ciò che io dicevo a quel bravo parroco del «mea curpa», ricordandogli che se il Concilio di Trento aveva solennemente deciso: «Chi afferma che la Messa dev'esser celebrata in lingua volgare sia anatema», aveva insieme raccomandato ai parroci di curare l'istruzione liturgica, specie nei giorni festivi). «Ma se la piaga è sanabile, chi applicherà ad essa il farmaco salutare? Il Clero, il solo Clero cattolico è quello che può ottenerne la guarigione». La seconda «piaga» denunziata dal Rosmini è difatti «la insufficiente educazione del Clero», e comincia con un rimpianto, così: «La predicazione e la liturgia erano ne' più bei tempi della Chiesa le due grandi scuole del popolo cristiano...» Oggi che, con l'istruzione d'obbligo, tutti sono ormai in grado di leggere un «messalino», oggi che tutti studiano e tutti sanno un po' di latino, oggi il Rosmini esulterebbe... o piangerebbe a vedere i preti che invece di valersi del mezzo si preoccupano di mantenere la «piaga», di vietarne la cura, di voler la cancrena. Cancrena, e intendo questo proliferar della divisione, questo progressivo logico disgregarsi della «loquela comune» (che fatalmente comporta quello della comune fede) in tante differenti loquele quante le lingue parlate, che al dire di un glottologo americano, Sidney Culbert, sono ufficialmente centotrentacinque ma di fatto «più di trentamila» (non so se inclusi i dialetti, i quali avranno pure il diritto alla «loro» Messa, come arguisco, per il siciliano, da un processo svoltosi giorni addietro in una nostra città, dove al giudice, per farsi intendere dal licatese imputato, è occorso l'interprete).

E ritornando al mio «processo», al mio presunto diritto o dovere d'interloquire, come ho fatto in quelle mie pagine, in cose di chiesa ossia della Chiesa, ecco la testimonianza per cui ho citato il pio Rosmini... Lo stile è arcaico, è «del suo tempo», superato e un tantin ridicolo per noi del nostro tempo, e questo stesso ci mostra che cosa sarebbe della preghiera liturgica fra qualche tempo se il volgare dovesse esser la lingua della Chiesa, la quale è fuori del tempo, a somiglianza del suo Fondatore e Sposo, «ipsa et in saecula». «Esitai prima di farlo», egli scrive nell'introduzione al suo libro, «perciocchè meco medesimo mi proponea la quistione: "Sta egli bene che un uomo senza giurisdizione componga un trattato sui mali della santa Chiesa? O non ha egli forse alcuna cosa di temerario il pur occuparne il pensiero, non che a scriverne, quando ogni sollecitudine della Chiesa di Dio appartiene di diritto a' Pastori della medesima? E il rilevarne le piaghe non è forse una mancanza di rispetto, quasiché essi o non conoscessero tali piaghe, o non ponessero loro rimedio?" A questa quistione io mi rispondea, che il meditare sui mali della Chiesa, anche a un laico non potere essere riprovevole, ove a ciò fare sia mosso dal vivo zelo del bene di essa, e della Chiesa di Dio» (sul che, applicato al mio caso, il testimonio della buona coscienza mi rassicura). «E finalmente mi si presentavano innanzi agli occhi gli esempi di tanti santi uomini che in ogni secolo fiorirono nella Chiesa, i quali, senza essere Vescovi, come un san Girolamo, un san Bernardo, una santa Caterina ed altri, parlarono però e scrissero con mirabile libertà e schiettezza de' mali che affliggevano la Chiesa nei loro tempi e della necessità e del modo di ristorarnela. Non già che io mi paragonassi pur da lontano a que' grandi» (e figuratevi se lo potevo far io!) «ma io pensai, che il loro esempio dimostrava non esser riprovevole l'investigare, e il richiamar l'attenzione de' Superiori della Chiesa sopra ciò che travaglia e affatica la Sposa di Gesù Cristo...»
Se nel far questo, nel richiamare tale attenzione, io sono stato un po' ruvido, dimenticando la qualità, la dignità del superiore, mi rammenta quella guardia svizzera che, rigido osservante della consegna ricevuta di non far passare, per non so che cerimonia, altro che i cardinali, uno ne respinse, con poco garbo, che tale non gli era parso, giustificandosi poi col dirgli, riconosciuto che l'ebbe: «Oh, mi perdoni. Eminenza: l'avevo preso per un vescovo». Come se i vescovi... Lo zelo scusava in tal caso la maniera, ed è quel che io chiedo per me. «Posso aver fallato», dirò, sempre con quel benedetto Manzoni, e magari non più convinto del personaggio a cui lo fa dire; ma, chi non fa, d'altronde, non falla; e a fare, quello che ho fatto e come l'ho fatto, m'han pure spirito e guidato queste parole di un celebre monaco, del quale invidio la virtù non meno di quel che ammiri la penna: «Se uno scrittore è tanto cauto da non scrivere nulla che possa esser criticato, non scriverà mai nulla che possa esser letto. Se vuoi aiutare gli altri devi deciderti a scrivere cose che taluni condanneranno» (Thomas Merton, Semi di contemplazione).
Per scrivere questa mia difesa, e continuare il servizio, mi sono messo, a buon conto - già ve ne sarete accorti - una ciotola di miele sul banco; e mi si perdoni se nello scacciar le mosche mi avvenisse di fare ancora del male. «Sponte favos, aegre spicula (le miel de grè, le dard à regret)», come diceva di sè il Veuillot, il grande paladino della Chiesa, «quel grande cavaliere di Cristo» (come lo chiamò nel suo Diario Angelo Roncalli), che pensava di prendere per divisa un'ape, quel caro insetto che ci dà appunto il miele, nonchè la cera per l'altare, ma all'occasione sa metter fuori anche il pungiglione.


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