LA TUNICA STRACCIATA
La rivincita di «Richetto»

Il popolo, dico riprendendo il discorso, sente, gusta, ama il latino di chiesa, così come ama e vuole bella la chiesa; e mi rammento, a questo proposito, di una parrocchia montana della vostra diocesi, Eminenza, la parrocchia dei Boschi, ch'io visitai molti anni addietro, dove i popolani, che vivevano, allora, poco più che di «necci», dopo essersi vuotate le tasche vendettero fin le loro galline, come il parroco mi raccontava, felici di impoverirsi ancor più per dare alla loro nuova Casa di Dio, come il poeta auspicava per l'altra, celebre, «la voce de la preghiera», ossia un bel campanile con quattro belle campane... Col che tornando alla lingua, permette che divaghi di nuovo per raccontarvene un'altra: un'altra recente e forse non vera, forse inventata da un bello spirito per far vedere come il popolo il latino lo abbia nel sangue, dopo quindici secoli di preghiera privata e pubblica che ne hanno fatto, per dirlo con le parole di un grande papa, la sua «lingua materna».

Dice dunque che un contadino, sul tipo di quel Vitale di Pietrasanta della novella sacchettiana che aveva messo il figliolo a studiare a Bologna con suo dispendio ma con la fondata speranza di farne un «giudico» e così ritrarne lustro e guadagno; avendo fatto precisamente come quello con un de' suoi ma avendoci, a differenza di quello, rimesso oleum et operam, secondo il detto di Plauto, non senza danno del suo amor proprio secondo il detto di Fedro, et perdunt operam ed deridentur turpiter, e tutto questo per via giusto del latino, nel quale il povero Richetto non era mai riuscito a sfondare, se l'era presa con la lingua di quelli come Catone con Cartagine, e se non predicava contro di lei il suo delenda ne lo tratteneva forse il pensiero che quella era pur la sua lingua di buon cristiano, dico la lingua della Chiesa. Logico, quindi, ch'egli facesse festa, come noi lutto, il 7 marzo, non essendoci più lieta cosa del poter accordare coi nostri propri sentimenti, o sian pure risentimenti, la nostra propria coscienza; e fu così che, mandato in pace, con tutti gli altri, dal celebrante, e con tutti gli altri uscito di chiesa, esclamò: «L'è finita col latino: l'è proprio finita, Deo gratias!» Il che avendo fatto un po' rider gli altri fu causa ch'egli li facesse ridere ancora, riprendendo con la stessa ingenua veemenza: «Sì, finita, laus Deo! e per sempre: per omnia saecula saeculorum. E se a voialtri la vi garbava, prosit: io, per me, gli dico: requiescat in pace!»
Giova a noi credere che il brav'uomo, in quanto a legger nel futuro, non superi in acutezza il rampollo. Siamo in molti, e il numero ogni giorno cresce, a sperarlo, a sperare, per il latino di chiesa, in un altro latino: «Multa renascentur quae iam cecidere...» e a ben sperare ci son cagione, con la loro intelligenza, il loro buon gusto, il loro nativo fiuto del bello proprio questi studenti figli del popolo, come già si diceva, a cui la vostra demagogia non sa offrire che l'uguaglianza nell'ignoranza. Allorchè l'altr'anno, il nostro primo governo strabico (fronte al centro, occhi a sinistra), ossequente ai masson-marxisti della congrega, umiliò la scuola riducendo e rendendo facoltativo ciò che prima era d'obbligo, risultò poi che a optare per il latino erano i figli dei contadini e degli operai, era insomma il «popolo», a ben del quale s'era pretestuosamente chiesta l'abolizione, voluta di fatto in odio alla Chiesa, alla lingua, ripetiamolo, della Chiesa. È di questi giorni la dichiarazione dell'onorevole Elkan, sottosegretario all'Istruzione, che la maggioranza «degli alunni della scuola media hanno scelto il latino come materia facoltativa, negli ultimi tre anni, con preponderanza delle scuole periferiche» (ossia del popolo più «popolo», e nonostante che il latino di scuola sia ben più difficile del latino di chiesa!) «senza alcuna discriminazione di carattere sociale»): quanto dire che il latino abolisce, non favorisce le «caste».
Si fosse avuto meno fretta, come la gatta del proverbio, si sarebbero visti, «in nome del popolo», dell'istruzione, dell'educazione, dell'«elevazione» del popolo, i paesi schiettamente, autenticamente comunisti - cominciando dalla Cecoslovacchia - rimettere nelle scuole, in tutte e come materia d'obbligo, il latino... con quanta vergogna per noi italiani, con quanta umiliazione per noi cattolici! «C'è da mangiarsi le mani», scriveva con invidiosa rabbia, in proposito, una nostra rivista, e voglia Dio adempiere la sua sarcastica speranza di veder «tornare il latino anche da noi, anche in chiesa, adesso che è venuto il " via libera " d'oltre cortina».
Dal lato dei protestanti s'è potuto legger nel Times, citato dal cardinale Godfrey, portavoce dei cattolici inglesi: «Mentre il Concilio Romano si pone il quesito... di sostituire nel culto la lingua latina con la lingua volgare, noi anglicani ci sforziamo d'introdurre di nuovo il latino negli atti di culto e deploriamo vivamente il fatto di non posseder questa lingua». Invidia, dunque, anche di lì: l'invidia di chi ha il sacco e non la farina e vede con stupore chi ha questa buttarla via... come coriandoli al fango nei giorni fatui del carnevale... Sappiamo che tra i protestanti più sinceramente cristiani, più nostalgici dell'unità, c'è in realtà un movimento (il Sinodo di Canterbury ha già dato il via) per il ritorno al latino, alla lingua ch'essi parlarono, con cui pregarono in fraternità insieme a noi prima di separarsi, di lasciar la casa paterna, e sarà la loro esperienza di quattro secoli e mezzo di «volgare», di «lingua nazionale», a disilluder chi in buona fede credette al «diaframma». «Non c'illudiamo», scrive col suo arguto buon senso il Marshall: «non sarà la liturgia in volgare a far venire gl'invitati al festino di nozze. La Chiesa anglicana canta il più bell'inglese davanti ai banchi più vuoti, mentre il (cattolico) più ignorante in latino intende benissimo ciò che fanno i monaci di Solesmes».



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