LA TUNICA STRACCIATA
Stupore di «barbari»

Coerentemente, logicamente, con l'altrui esperienza che si diceva, fra i difensori cattolici del latino gl'inglesi sono in prima linea (lo dimostra fra l'altro il forte numero di aderenti, laici e clero, alla Latin Mass Society istituita per questo), insieme agli americani, ai tedeschi, agli svizzeri, agli scandinavi, ai polacchi, per dire i paesi, a prevalenza protestante o più dissiti, etnicamente e linguisticamente, da Roma, che avrebbero dovuto, come parrebbe, accoglier dunque la Riforma con tanto più buon viso di noi italiani per il quale il latino è (Dante) «la lingua nostra».
Ho accennato, per l'Inghilterra, al cardinale Godfrey; vi rimando, per l'America, al cardinale Gibbons, che nel suo libro La fede dei nostri padri confuta così persuasivamente il vostro discorso sul «diaframma», e la conferma ci è venuta or son pochi mesi dagli americani stessi, che a un'inchiesta sull'«indice di gradimento della Riforma», promossa dai 130 giornali cattolici e riferita con stupore dall'«Osservatore Romano» (8 giugno 1966) hanno risposto, nella stragrande maggioranza, nettamente di no; hanno risposto di «sentirsi indeboliti verso le pratiche religiose e verso i legami spirituali con gli altri fratelli cristiani»; hanno risposto, gli ex-protestanti: «Questo nuovo indirizzo della liturgia ci riporta alla vecchia Chiesa e ci toglie quel senso di tipica devozione cattolica che tanto ha influito sulla nostra conversione». Dove si vede che il «diaframma», in tutti i sensi, è semmai il volgare... Vi do per noto, proseguendo, il «parere», chiesto e recepito dall'Alto, del padre Wlodimiro Ledòchowski, polacco, che a nome e con l'esperienza mondiale del glorioso esercito ignaziano di cui era a capo denunziava la tendenza antilatinista come «assai pericolosa per l'unità della Chiesa», giovevole ai «movimenti più o meno aperti per creare le cosiddette chiese nazionali», cooperatrice indiretta delle «tendenze separatistiche»; tralascio tante e tante altre testimonianze di uomini, ecclesiastici e laici, che alla saggezza e all'esperienza unirono la più profonda pietà, ma non rinunzio, per i tedeschi, a citarvi almeno una pagina, la prima di tutto un libro, Romanitas e Cattolicità nell'ora presente, scritta in difesa del latino da un fervente cattolico ed eminente uomo di lettere quale il professore Anton Hilckman, dell'Università di Magonza: «Fino ad ora... la "latinità" era per noi, almeno sentimentalmente, qualcosa, per così dire, di essenziale alla stessa fede professata. In misura assai più vasta che non si immagina nei paesi linguisticamente latini, per noi cattolici europei linguisticamente non-latini, ma religiosamente tanto più romani e quindi anche latini, il Latino, la lingua della nostra liturgia, era una lingua sacra. Lo stesso pensiero che un giorno si sarebbe potuto toccarlo, sarebbe parso sacrilego. Si amavano, certo, e si cantavano con entusiasmo, i canti religiosi in lingua tedesca alla Madonna, quelli natalizi e pasquali... questo sì, ma la liturgia nel senso più stretto, quella della Messa, per esempio, in lingua tedesca... no: questo era inconcepibile. I dibattiti dei tempi della riforma protestante non erano poi tanto lontani; e noi non avevamo dimenticato che i nostri antenati avevano preso le armi contro tutta la serie dei vari principotti e principucoli protestanti per conservare la Messa latina, per mantenere la "romanità" della nostra fede, per non "intedeschire" la religione ("Cuius regio, ejus religio "); un orrore, una abominazione mai e poi mai accettata dalla coscienza cattolica dei nostri antenati! La Messa romana in lingua latina era per noi la più splendida, la più eloquente manifestazione e dimostrazione dell'unità mondiale della nostra fede, che noi consideravamo come l'unica vera fede dell'umanità tutt'intera. Con quanta commozione e quanto entusiasmo ascoltavamo i racconti di compatrioti e correligionari che avevano fatto il giro del mondo, sentendosi sperduti ed abbandonati in paesi lontani, stranieri ed alloglotti... e che improvvisamente, ad un tratto, si sentivano nella casa paterna, quando in una chiesa della lontanissima Santiago del Cile o della Nuova Zelanda udivano intonare il Credo in unum Deum... o il Gloria in excelsis Deo... esattamente come nelle familiari chiesine della nostra Vestfalia! Questo era la cattolicità; il mondo tutt'intero era la nostra patria! Esser cattolico voleva dire, in un senso più che terrestre, essere cittadini dell'Universo, della Terra tutta intera, la quale avrebbe dovuto divenire cristiana, cattolica, romana... Fare concessioni, cedere, rinunciate alla menoma parte della nostra "romanità"? Non si poteva pensarvi!»
Che ci potessero pensar gl'italiani, o meglio che ci si potesse pensare per gl'italiani, è parsa cosi grossa su in Scandinavia che uno svedese, un «vichingo», amico del nostro amico Marino Sanarica - autore di una celebre «epistola», Essere o non essere, a voi diretta - ne ha scritto, in latino, a questi, manifestando il maggior stupore, come i comunisti cecoslovacchi, come i protestanti inglesi, e dicendogli: Ah, voi rinunziare al latino! «Vuol dire che saremo noi a sostituirvi: noi, noi barbari!» (qualche cosa di simile a quello che ci disse l'altr'anno un negro, il presidente del Senegal, Senghor, in visita a Roma, pronunziando in latino il suo discorso all'arrivo mentre quei nostri onorevoli ne sentenziavano in cattivo sgrammaticato italiano il licenziamento dalla scuola). E di lassù, di tra le nevi e i ghiacci del polo, ci venne, dallo stesso scrivente, questa calda, soave, mistica rappresentazion del latino: «Pelicanus est ille myticus, pio fodicat qui pectora rostro datque fervidum sanguinem bibendum et carnern edendam pullis scilicet nobis filiolis atque semper idem et unus manet, non extenuatus, non confectus»: inconscia e poetica traduzione di ciò che leggevamo dianzi in Pio XI: «... sermonem... universalem, immutabilem, non vulgarem» - e torniamo al «popolo», il povero popolo-ciuco a ben del quale voi avete tirato il collo al pellicano, ossia tolto di mezzo il latino, sorridendo, se non ridendo, delle nostre «posizioni sentimentali» e concedendo, bontà vostra, che ciò che a voi, «innovatore» per vocazione, non dava altro che fastidio, avesse le sue ragioni di piacere a noialtri. Torniamo, cioè, alla vostra conferenza-lancio.



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